Anna Emilia Berti AIP sulle terapie di conversione

La Prof.ssa Berti sul sostegno dell’AIP alla campagna per vietare le “pratiche di conversione”

Riceviamo e pubblichiamo un contributo della Prof.ssa Anna Emilia Berti, studiosa senior dell’Università di Padova, e già Professoressa Ordinaria di Psicologia dello Sviluppo e Psicologia dell’Educazione presso la Facoltà i Psicologia dell’Università di Padova (ora Scuola di Psicologia) e membro dell’Associazione Italiana di Psicologia (AIP)

Il suo intervento affronta un tema di grande rilevanza e attualità: il recente sostegno espresso da AIP alla proposta legislativa che prevede il divieto delle cosiddette “pratiche di conversione”.

Il contributo della Prof.ssa Berti rappresenta una riflessione argomentata e stimolante sul ruolo delle istituzioni scientifiche, sul significato attribuito al concetto di “conversione” e sulle implicazioni etiche, cliniche e culturali che tale posizione può generare nell’ambito della psicologia dello sviluppo e della tutela dei minori. La sua analisi invita ad ampliare la prospettiva, a interrogarsi con rigore sul rapporto tra ricerca scientifica, libertà terapeutica e pluralità degli approcci psicologici, nella consapevolezza che questioni di questa portata richiedono prudenza metodologica, chiarezza terminologica e un confronto non polarizzato tra studiosi, clinici e società civile.

Esprimiamo la nostra gratitudine alla Prof.ssa Berti per aver condiviso il suo punto di vista e per aver sollecitato un dibattito aperto, fondato sull’evidenza e non sull’assunto ideologico. Il suo invito a un confronto serio, approfondito e rispettoso costituisce un contributo prezioso per chiunque ritenga necessario affrontare questi temi con responsabilità scientifica, sensibilità educativa e attenzione ai diritti delle persone coinvolte.


Nel sito di una nota associazione di genitori viene celebrato “l’importante supporto” che a settembre di quest’anno l’Associazione Italiana di Psicologia (AIP) ha dato alla campagna che, dal 2024, oltre 30 associazioni LGBTQIA+ stanno conducendo per ottenere una legge che vieti le cosiddette “Terapie di conversione con le quali si intende modificare l’orientamento sessuale, l’identità di genere o l’espressione di genere di una persona”.

Su questa materia, le associazioni LGBTQIA+ hanno elaborato una bozza di proposta di legge e su di essa hanno chiesto il parere dell’AIP, che ha affidato a una apposita commissione il compito di “offrire un contributo tecnico-scientifico volto a fornire indicazioni e raccomandazioni in merito agli aspetti psicologici connessi alla proposta di legge” e ha prodotto il documento scaricabile qui.

L’AIP, di cui faccio parte dalla sua fondazione, “ha come soci gli psicologi che svolgono attività di ricerca e didattica, prevalentemente nelle Università e negli Enti di ricerca […] conta oltre 1000 soci tra ordinari e affiliati” come si può leggere nel suo sito. Essa può quindi essere considerata rappresentativa della maggior parte degli psicologi accademici italiani. Nel commentare i documenti in questione e le posizioni espresse dall’AIP, non posso che augurarmi che all’interno dell’associazione si apra un serio dibattito su questi temi.

La proposta di legge inizia con una lunga introduzione che, citando ricerche e prese di posizione riguardanti principalmente le persone omosessuali, ne generalizza indebitamente i risultati alle persone – bambini compresi – che non si riconoscono nel loro sesso biologico (la cosiddetta incongruenza o disforia di genere). Il testo in questione nasconde le molte importanti differenze tra orientamento sessuale e disforia di genere: in particolare viene sottaciuto il fatto che, mentre una persona omosessuale non ha bisogno di nessun intervento medico o psicologico per poter vivere serenamente il suo orientamento sessuale, l’incongruenza di genere viene spesso affrontata con pesanti e potenzialmente irreversibili interventi farmacologici e chirurgici; tali interventi vengono esplicitamente e acriticamente approvati sia nella proposta di legge che nel documento dell’AIP.

La proposta di legge sancisce che “chiunque tenti di modificare, con una o più condotte, l’orientamento sessuale o l’identità di genere di una persona, oppure l’espressione di genere, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa fino a euro 10.000. [Questi sono] “aumentati fino a tre anni e fino a euro 15.000 quando il soggetto agente è un professionista o i tentativi di modificazione sono realizzati su una persona minorenne o vulnerabile”. Per i professionisti è inoltre prevista “la pena accessoria dell’interdizione dalla professione da uno a tre anni”.

Si tratta di una proposta dai contorni estremamente vaghi (per esempio non vengono specificate le “condotte” a cui si fa riferimento), che si presta in modo evidente ad applicazioni espansive e censorie. In risposta, l’AIP non si limita ad abbracciarne senza riserve le intenzioni, ma suggerisce perfino diversi modi in cui la proposta potrebbe essere resa ancora più intrusiva.

In particolare, l’AIP suggerisce di utilizzare l’espressione “pratiche di conversione” al posto di “terapie di conversione”, e di specificare che queste pratiche vanno bandite in qualsiasi contesto, compreso quello familiare, “indipendentemente dall’età e dal consenso” della persona a cui sono rivolte, in questo modo estendendo enormemente le azioni suscettibili di sanzione penale. Ad esempio, cosa succederebbe se i genitori di un bambino incerto sulla sua identità sessuale cercassero, di propria iniziativa, di non incoraggiare l’identificazione col sesso opposto, spiegando che si possono svolgere attività considerate appropriate alle bambine anche se si è maschietti e viceversa? Oppure cosa succederebbe a dei genitori che non volessero assecondare il desiderio del proprio figlio Mario di indossare gonne e di essere chiamato Maria, dal momento che sia i vestiti che il modo in cui si viene chiamati rientrano nell’ambito dell’“espressione di genere”? In base a questa proposta di legge, diventerebbero passibili di denuncia da parte di attivisti o organizzazioni LGBTQIA+. E sarebbero passibili di denuncia anche gli psicoterapeuti che, su richiesta di un adolescente, si proponessero di aiutarlo a esplorare le cause della sofferenza per i cambiamenti che stanno avendo luogo nel suo corpo. 

Le indicazioni dell’AIP vanno ancora oltre, consigliando i proponenti della legge di sottolineare esplicitamente che “interventi, servizi e trattamenti di affermazione di genere non devono essere considerati ‘pratiche di conversione’ in quanto non fondati sull’assunto che un certo orientamento sessuale, identità di genere o espressione di genere siano da ritenersi preferibili rispetto ad altri”. 

Come il documento chiarisce in un altro punto “i percorsi medici e sanitari (percorsi medici e psicologici di affermazione di genere), inclusi i trattamenti ormonali e gli interventi medico-chirurgici con cui si autodetermini la persona per l’affermazione della propria identità di genere e/o la propria espressione di genere non costituiscono tentativi di modificazione”. I trattamenti ormonali, anche su bambini prepuberi, vengono così approvati, anzi implicitamente raccomandati. 

Purtroppo, la messa al bando di tutti gli approcci alternativi (impropriamente riuniti sotto l’etichetta di “conversione”) per lasciare il campo solo a quello affermativo è già in corso in alcuni Paesi, che parallelamente approvano o effettuano tramite i loro sistemi sanitari la somministrazione di bloccanti della pubertà ai bambini che affermano di appartenere al sesso opposto. Si tratta di un approccio basato su presupposti ideologici, in particolare il diritto assoluto all’autodeterminazione di ogni persona, compresi bambini e bambine, riguardo alla propria identità sessuale e di genere. A questo si contrappone il modello della medicina basata sull’evidenza, incentrata sulla sicurezza del paziente e su standard di cura basati sui risultati della ricerca (Kozlowska e altri 2025, Evolving national guidelines for the treatment of children and adolescents with gender dysphoria: International perspectives). 

L’approccio affermativo, e in particolare i trattamenti ormonali rivolti a bambini e adolescenti, è stato messo pesantemente in discussione dopo la pubblicazione, nel 2024, della Cass Review, una rassegna approfondita commissionata dal servizio sanitario inglese, che ha evidenziato la mancanza di prove solide di efficacia, a fronte della medicalizzazione della persona e dei numerosi effetti collaterali. 

Una analoga rassegna è stata prodotta, un anno dopo, dal Ministero della Salute statunitense (Department of Health and Human Services), riprendendo e aggiornando quella britannica, chiarendo gli equivoci su cui si basa l’uso dell’espressione “terapie di conversione” quando riferita alla disforia di genere, ed esaminando il contributo che varie tipologie di psicoterapia (cognitivo- comportamentale, psicodinamica, familiare) possono dare a bambini e adolescenti affetti da disforia di genere o dubbiosi della loro identità.

Sottoscrivere, come fa l’AIP, l’assunto che le persone non possano esplorare liberamente verso quale identità di genere ri-orientarsi in caso di incertezza, che pesanti interventi medici e chirurgici volti ad adeguare il corpo alla percezione di sé siano leciti e raccomandabili, mentre aiutare una persona a riconciliarsi con il proprio sesso sia una forma di violenza che va sancita penalmente, non significa dunque esprimere una tesi scientifica basata su fatti, ma una posizione ideologica, ed è preoccupante che una società scientifica, come l’AIP dovrebbe essere, se ne faccia portatrice. È particolarmente preoccupante notare che l’AIP, interpellata da associazioni di attivisti, anziché assumere un ruolo terzo e basare la propria posizione su dati scientifici si sia allineata all’attivismo di matrice ideologica, incoraggiandone le rivendicazioni e anzi rinforzandole. 

Anna Emilia Berti

Studioso Senior Università di Padova
Già professore ordinario di Psicologia dello Sviluppo e Psicologia dell’Educazione

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