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Audizioni sul DDL disforia: l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza

Pubblichiamo la memoria scritta depositata da Marina Terragni, Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, presso la XII Commissione Affari Sociali, a seguito dell’audizione resa in data 5 novembre 2025 sul DDL “Disposizioni per l’appropriatezza prescrittiva e il corretto utilizzo dei farmaci per la disforia di genere”.


Il ddl in discussione tiene al suo centro la salute delle persone di minore età, missione precisa dell’Autorità che qui rappresento. In altri Paesi pionieri di questi trattamenti, UK, Australia, molti stati USA e altri, la riflessione critica sulla “terapia affermativa” è già aperta da tempo. In Italia non si disponeva nemmeno del numero dei minori in trattamento con triptorelina off-label – terapia in atto dal 2019 -, sui protocolli effettivamente adottati né tantomeno di follow up. Siamo quindi in forte ritardo rispetto a quasi tutto il resto del mondo occidentale, dove questi trattamenti sono stati praticati per lungo tempo e su decine di migliaia di minori.

La “terapia affermativa” per i bambini con disforia di genere o “protocollo olandese” è stata inventata a metà anni Novanta e poi esportata in tutto il mondo.

Il punto di svolta è stato il Cass Review del 2024, studio indipendente UK. Nello studio si afferma che la terapia affermativa è stata un clamoroso fallimento del sistema; una vera sperimentazione in vivo; che non ci sono prove che con il trattamento il benessere dei minori aumenti; che non è vero che la triptorelina riduce il rischio di suicidio e che i suoi effetti siano irreversibili; che i pazienti non sono stati sufficientemente monitorati; che a 9-10 anni non si può esprimere alcun consenso, che prima dei 18 anni non si dovrebbe avviare nessuna transizione e che almeno fino ai 25 si dovrebbe procedere “con cautela e compassione”; che per quei minori serve un approccio olistico e un’accurata valutazione psicologica dato che quasi sempre soffrono di concomitanti disturbi mentali; che gli standard di cura raccomandati da WPATH, la maggiore associazione per la salute transgender, standard che hanno orientato le maggiori società scientifiche e istituzioni sanitarie in tutto il mondo, sono inattendibili; che bavagli, censure, urla e minacce hanno ostacolato come mai prima d’ora ogni serena valutazione scientifica. In UK oggi la triptorelina viene somministrata solo nell’ambito di protocolli sperimentali.

Cass parla anche di transizione sociale e di carriera alias avvertendo che “quando si prendono decisioni sulla transizione sociale dei bambini in età prepuberale si dovrebbe garantire che possano essere visitati il prima possibile da un professionista clinico”. Anche in Italia capita con notevole frequenza che all’insaputa delle famiglie nelle scuole si adottino nome e pronomi riferiti al ‘genere di elezione’ indicati dalla ragazza o dal ragazzo.

Al rapporto Cass è seguito quest’anno quello del Dipartimento della Salute americano, Treatment for Pediatric Gender Dvsphoria: Review of Evidence and Best Practice – che con un approccio basato sulle prove evidenzia l’incertezza scientifica e – perfino oltre il Cass – i rischi della transizione medica pediatrica. E privilegia interventi psicosociali e valutazioni psicologiche approfondite mentre molte cliniche di genere negli USA spesso le omettono o si limitano a una singola sessione. Inoltre, il rapporto americano inserisce l’aumento della disforia di genere nella più ampia crisi di salute mentale adolescenziale. La controprova è, come vedremo, che la diminuzione dei casi di disforia negli USA va di pari passo con la diminuzione del tasso dei disturbi mentali.

Recentemente anche le Nazioni Unite, in un rapporto curato da Reem Alsalem, Special Rapporteur contro la violenza su donne e ragazze, hanno classificato tra le violenze di genere “la transizione sociale e medica dei bambini” con le sue “conseguenze a lungo termine e dannose”, rilevando che “le probabilità di essere diagnosticati con disforia sono tre volte maggiori per bambini e adolescenti con una diagnosi di disturbo nello spettro autistico, e con le ragazze particolarmente colpite”. In forza di ciò Alsalem chiede “il divieto di transizione legale e sociale dei bambini”.

Decisive per questo percorso di revisione sono state le testimonianze dei detransitioner – anzi delle detransitioner, trattandosi nella stragrande maggioranza di FtM – oscurate mediaticamente in quanto temibili contro-testimonial e private di terapie fisiche e psicologiche di accompagnamento. Una destransitioner, Keira Bell, ha aperto il dibattito in UK che ha condotto alla chiusura della Tavistock Clinic di Londra. Dopo il trattamento con i blocker a 15 anni Keira si ritrova, parole sue, “in una specie di menopausa con vampate di calore, sudori notturni e annebbiamento mentale. Ma io volevo sentirmi come un uomo giovane, non come una vecchia signora”. “Crescendo mi sono resa conto che la disforia di genere era un sintomo del mio malessere, non la sua causa”. Keira fa causa al servizio sanitario nazionale e vince.

Nel 2022 il principale centro svedese per minori con disforia, il Karolisnka Institute di Stoccolma, chiude dopo l’ammissione di avere danneggiato con i blocker almeno una dozzina di bambini sottoponendoli al rischio di “gravi lesioni” a causa di trattamenti errati e senza che le famiglie fossero adeguatamente informate. Caso più clamoroso quello della ragazza “Leo” trattata dall’età di 11 anni. Quattro anni dopo aveva sviluppato osteoporosi, alterazioni vertebrali e soffriva di dolori alla schiena e all’anca. Leo, si ammette, non avrebbe mai dovuto essere sottoposta a blocco della pubertà. Si sarebbe dovuto tenere conto dei suoi problemi psichici. Oggi in Svezia la prima istanza per i minori con disforia è il trattamento psicologico.

Recentissimamente ha chiuso i battenti anche il Center for Transyouth Health and Development, una delle più grandi cliniche di settore presso il Children’s Hospital di Los Angeles. La responsabile Johanna Olson-Kennedy è finita nell’occhio del ciclone per avere cercato di occultare i risultati di una sua ricerca finanziata con fondi pubblici, risultati che dimostravano che i farmaci per la transizione non miglioravano la salute mentale dei pazienti. Olson-Kennedy è stata anche citata in giudizio da una ex paziente che a soli 14 anni ha subito una doppia mastectomia con il suo consenso.

Lo stesso concetto di “blocco della pubertà” è fuorviante, perché fa presumere la possibilità di un successivo “sblocco” e di una ripresa dei processi fisiologici. Spiega il neurofarmacologo prof. Angelo Vescovi, attuale presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica: “La pubertà è un fenomeno multisisistemico regolato da un complessissimo network di sostanze che fanno evolvere tutti gli organi verso l’età adulta. Trovo sconvolgente che uno scienziato possa pensare che una molecola sia in grado di bloccare un processo così ramificato, eventualmente per riattivarlo in seguito. On-off è una logica che in biologia non esiste. I processi non si fermano, semmai vengono deviati con effetti a cascata”.

Quanto alla reversibilità degli effetti dei blocker, Vescovi afferma “Puoi revertire l’atto, ovvero smettere di somministrare il farmaco, non gli effetti”.

Conferma Maura Massimino, primaria di oncologia pediatrica presso l’istituto dei Tumori di Milano, che in alcuni casi – fatto un attento calcolo costi-benefici – prescrive triptorelina per arginare i rischi connessi alle pubertà precoci in seguito a terapia oncologica: “Non è pensabile una interruzione ed una riaccensione del delicato ed estremamente complesso processo della pubertà con l’automatismo con di cui si parla ora… gli effetti collaterali sono ben noti: osteopenia, alterazione di colesterolo e trigliceridi, alterata distribuzione della massa grassa, riduzione del tono muscolare e della crescita. Dai lavori non appare riportata in maniera soddisfacente la reversibilità degli effetti collaterali. Nei lavori internazionali disponibili si dimostrano: difficoltà nell’apprendimento della matematica e delle scienze esatte, riduzione del tenore osseo anche 24 mesi dopo la sospensione del farmaco, ansia e depressione come prima del trattamento, maggiore massa grassa, riduzione della crescita, riduzione del quoziente intellettivo, aumento ponderale persistente anche dopo due anni dalla fine del trattamento, dislipidemia”.

La stessa definizione “disforia di genere” forse è inadeguata a descrivere la vera e propria epidemia registrata nell’ultimo quindicennio. La platea delle persone trans è drasticamente cambiata: se un tempo si trattava quasi solo di MtF, rarissimi i casi da donna a uomo, ci ritroviamo oggi con una platea a stragrande maggioranza femminile, ragazze che chiedono di diventare maschi. Nel 2018 la Tavistock Clinic di Londra aveva già registrato un aumento del 4400 per cento di richieste da parte di ragazze rispetto al decennio precedente, mentre gli studi da cui è nato il protocollo olandese si erano concentrati sul classico paziente maschio con disforia fin dalla prima infanzia.

Anche i principi di Yogyakarta che dal 2006 informano le politiche trans in tutto il mondo sono stati tagliati su questi maschi di nascita.

In chiave paritaristica – ignorando ciò che prescrive la medicina di genere – è del tutto mancata una lettura differenziata dei fenomeni in base al sesso di nascita. Ma la differenza sessuale vale anche qui. Se nel caso dei maschi quasi sempre l’esordio è molto precoce e si può parlare di autoginefilia, nel caso delle femmine l’esordio è più tardivo, puberale o prepuberale, generalmente improvviso: in suo studio del 2018 la dottoressa Lisa Littman parla infatti di Rogd, Rapid Onset Gender Dysphoria, soggetta a contagio sociale. Si tratta secondo Littman di “coping sociale”, ovvero un modo di fronteggiare lo stress causato da altri disturbi, incoraggiato dal contagio social e dai festeggiamenti dei pari. Il contagio sociale è stato ammesso perfino da Marcy Bowers, trans MtF presidente della World Professional Association for Transgender Health (WPATH), associazione che da anni detta gli standard di cura: «Ci sono persone nella mia comunità che negheranno che ci sia una sorta di “contagio sociale” – non dovrei dire contagio sociale, ma almeno va riconosciuta l’influenza dei compagni su alcune di queste decisioni».

Come sappiamo la disforia nelle ragazze si manifesta spesso insieme a disturbi psichici tipicamente femminili come autolesionismo e disturbi del comportamento alimentare. Secondo un recente studio queste ragazze presentano un rischio 3-4 volte superiore di disturbo alimentare rispetto ai controlli. Forse si può addirittura considerare la disforia delle ragazze come “perfezionamento” dell’anoressia: in entrambi i casi si ingaggia una battaglia con il proprio corpo alle soglie dello sviluppo, cercando di fermarlo prima che assuma quei caratteri che lo configurano come corpo materno. Bloccando la pubertà, la triptorelina assicura – in apparenza – il risultato. Si tratta di un vero e proprio attacco al corpo.

Questo aspetto di differenza sessuale è stato quasi del tutto trascurato, ma recentemente alcuni hanno cominciato a osservarlo, parlando per le ragazze – anziché di disforia di genere – di “angoscia da sessuazione pubertaria”. Si tratta dell’insopportabilità del dover entrare a fare parte del sesso oppresso, la fantasia di poter essere maschi – la stessa fantasia delle antiche emancipate – per poter sfuggire alla “casa in fiamme” del proprio destino femminile inteso come illibertà e oppressione: “Non volevo diventare un uomo” ha spiegato una detrans. “Semplicemente non volevo diventare una donna”.

La ricerca sugli approcci psicoterapeutici per la disforia di genere è scarsa perché tali approcci sono stati etichettati come “terapia di conversione”. La terapia di conversione – oggi ritenuta una forma di tortura – aveva lo scopo di decondizionare le persone omosessuali per ricondizionarle in senso eterosessuale: non solo non ha mai funzionato, ma ha prodotto inenarrabili sofferenze. Ma come affermano da tempo varie associazioni per i diritti di gay e lesbiche – come LGB Alliance e Lesbians United – è il trattamento con i blocker a configurarsi come terapia di conversione e pratica omofobica: non sei gay o lesbica, sei un uomo intrappolato in un corpo femminile o viceversa. Il loro slogan è “stop transing the gay”.

Celebre l’affermazione di un medico della Tavistock, riportata da Hannah Barnes nel suo libro Time to Think: “Non ci saranno più gay, al ritmo a cui stiamo andando”. Alla Tavistock l’età media dei pazienti era 11 anni. Il 42% aveva perso un genitore per separazione o per morte. La maggior parte aveva problemi come ansia e stress post-traumatico da abusi; quasi un quarto aveva una storia di autolesionismo. Il 38% proveniva da famiglie con problemi di salute mentale, più di un terzo presentava tratti autistici da moderati a gravi. E il 90% delle femmine e1’80% dei maschi dichiarava di essere attratto dal proprio sesso o bisessuale.

Ma, come dicevo, c’è un’altra rilevante novità, rilevata dal nuovo studio “The Decline of Trans and Queer Identity among Young Americans”, di Eric Kaufmann, University of Buckingham. Lo studio registra un vistoso calo del numero di ragazze e ragazzi che si identificano come trans o queer: la quota si è dimezzata nel giro degli ultimi due anni, con punte anche più alte come all’Andover Phillips Academy di Boston, dove dal 9,2% del 2023 la percentuale è crollata al 3%. Stessi dati alla Brown University e in altre università. Sono gli studenti più giovani a essere meno trans e queer rispetto ai più grandi. Come si spiega? “Non è perché i ragazzi sono diventati meno woke, più religiosi e più conservatori”, dice Kaufman. “Quello in cui credono è rimasto invariato negli ultimi 5 anni”.

Rilevante semmai un parallelo miglioramento della salute mentale: gli adolescenti americani sono meno ansiosi e specialmente meno depressi. Il calo dei problemi di salute mentale va messo probabilmente in relazione anche a una maggiore vigilanza e anche autovigilanza nell’uso dei social – ovunque i giovani stanno autonomamente congegnando forme di resistenza a Big Tech – e alla perdita di interesse per il “corpo digitale”, come lo chiama Alberto Pellai. Diminuisce quindi il contagio sociale. Probabilmente anche una maggiore vigilanza sui corsi realizzati nelle scuole, conseguente alla stramobilitazione delle famiglie, ha contribuito al ridimensionamento. Ho intervistato recentemente per Il Foglio una giovane desister – desister è chi vive la disforia, riesce a darsi tempo, non intraprende terapia con i blocker e alla fine “desiste” e fa pace con il suo corpo. Hanneke Kouwenberg, esperta in transizione, sostiene che l’unica vera cura per la disforia dei bambini è la “desistenza”, cioè dargli il tempo. Succede almeno in 8 casi su 10. Lo dice anche la Società Italiana di Pediatria: solo nel 12-27 per cento dei casi la disforia permane nel passaggio all’adolescenza, mentre il 98% dei bambini che ricevono bloccanti passa agli ormoni.

Questa ragazza – che tipicamente ha sofferto anche di ansia, depressione, autolesionismo e anoressia – racconta bene il ruolo dei social e dell’isolamento in pandemia nell’insorgere della sua disforia.

Oggi ha 18 anni e ha fatto pace con il suo corpo. “Provo una grande rabbia nei confronti dei medici che ti “affermano” e di tutti quelli che mentono” dice. “Sono stata la preda perfetta perché sono molto sensibile e mi sono sempre fatta un sacco di domande su me stessa. Noi ragazzi non siamo capaci di vivere senza etichette, le cose ti capitano intorno così velocemente, c’è tutta questa tecnologia che corre, non riesci a trovare punti fermi. Fatichiamo a capire qual è il nostro posto nel mondo e cerchiamo un’appartenenza”. “Non so chi sia stato a voler fare di me una preda” ha aggiunto. “Non so se c’è un capo del mondo che decide queste cose. Certo, gli attivisti di questo movimento sono tutti adulti e ognuno ha il suo interesse da perseguire. So anche che si fanno molti soldi su queste cose e più persone aderiscono a questa ideologia più tutto diventa credibile. Per questo cercano prede perfette tra noi ragazzine”

La propaganda è ancora molto forte, soprattutto a livello europeo. La Commissione Europea ha presentato la Strategia per l’Uguaglianza LGBTIQ+ 2026-2030. In base a questa strategia, anche un bambino di cinque anni potrebbe avere il presto il diritto legale di cambiare genere senza che i genitori possano opporsi: si elimina infatti ogni limite d’età per il riconoscimento legale del genere, non serve consenso dei genitori né valutazione medica. Si parla di “terapia di conversione” per criminalizzare i genitori che cercano aiuto. La strategia viene rafforzata con i finanziamenti: per ottenere fondi UE le scuole devono insegnare l’identità di genere e i sistemi sanitari devono offrire cure “affermative”. Il tutto dovrebbe passare senza dibattito pubblico e politico, prima come soft law nella burocrazia per poi consolidarsi in leggi. È lo schema noto da anni del “no-debate”, modalità di azione politica definita nei famosi Dentons’ Principles: “collega al tua campagna a riforme più popolari”, “evita copertura mediatica eccessiva”, tieni tutto nascosto finché è possibile. E infatti non vi è stato alcuno scrutinio democratico, come denuncia il ForumAthena. LGB International – che rappresenta organizzazioni lesbiche e gay in 18 paesi – non riesce nemmeno a ottenere un incontro.

Secondo la sociologa Ashley Frawley, negli ultimi dieci anni oltre 221 milioni di euro di fondi UE sono stati convogliati nell’attivismo per l’identità di genere: lo scrive nel recente rapporto “Mission Creeps: How UE Funding and Activist NGOs Captured the Gender Agenda”‘. Vi posso anticipare anche che, in coerenza con la strategia della Commissione, la rete europea dei Garanti per l’Infanzia e l’Adolescenza ha indicato i diritti Lgbtq come tema 2026.

SUPPLEMENTO SUL RISCHIO SUICIDIO NEI MINORI CON DISFORIA DI GENERE

Come affermato dal Cass Review (UK 2024) e dal Treatment for Pediatric Gender Dysphoria: Review of Evidence and Best Practice (USA 2025) non esistono studi attendibili a supporto della tesi che la terapia affermativa prevenga il suicidio.

Insieme a Kenneth J. Zucker, Stephen B. Levine è il decano degli psichiatri americani esperti di transizione. È stato presidente della 5a edizione degli standard di cura dell’Associazione internazionale per la disforia di genere e ha fatto parte del tavolo sui disturbi dell’identità di genere per il DSM-IV dell’American Psychiatric Association. Levine è netto: “Nessuno studio mostra che l’affermazione dei bambini riduce il suicidio rispetto a un modello di risposta di “attesa vigile” o psicoterapeutico… i dati disponibili ci dicono che il suicidio tra bambini e ragazzi che soffrono di disforia di genere è estremamente raro”. E ancora: “la popolazione che si identifica come transgender soffre di un’alta incidenza di comorbilità correlate al suicidio. Ciò dimostra che ha bisogno di un’ampia e attenta assistenza psicologica, che in genere non riceve, e che né la transizione ormonale né quella chirurgica né l’affermazione risolvono i problemi di fondo”.

Uno dei bias più frequenti è che nel concetto di suicidalità vengono incluse sia le intenzioni suicidarie sia i tentativi di suicidio. Ma i fatti dicono che la percentuale di adolescenti disforici morti per suicidio è lo 0.03 per cento (“Suicide by clinic-referred transgender adolescents in the United Kingdom”, 2022).

Anche I’NHS, il servizio sanitario UK, afferma che “il suicidio è estremamente raro”. Uno studio olandese realizzato su un periodo di osservazione molto lungo (1972-2017, “Trends in suicide death risk in transgender people: results from the Amsterdam Cohort of Gender Dysphoria Study)” stima che il tasso di suicidio nei transgender è di 3-4 volte superiore a quello della popolazione generale, ma l’anoressia moltiplica il rischio di 18 volte, la depressione di 20, l’autismo di 8, e come sappiamo queste comorbilità sono frequenti nei minori con disforia.

Uno studio americano (Williams Institute della UCLA School of Law, “Prevalence of Substance Use and Mental Health Problems among Transgender and Cisgender US Adults”, agosto 2023) dimostra piuttosto – e purtroppo- un incremento di suicidi tra le persone che hanno perfezionato la transizione con la chirurgia: il 24 per cento degli adulti trans ha tentato il suicidio rispetto all’11 per cento degli adulti cis; per l’autolesionismo le rispettive percentuali sono 56 per cento e 12 per cento.

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