Audizioni sul DDL disforia: lo snodo cruciale della diagnosi e l’opacità dei dati
Ringraziamo il Dott. Lambruschi per averci autorizzato a pubblicare la memoria scritta da lui depositata presso la XII Commissione Affari Sociali, a seguito dell’audizione resa in data 5 novembre 2025 sul DDL “Disposizioni per l’appropriatezza prescrittiva e il corretto utilizzo dei farmaci per la disforia di genere”.
Chi è il Dott. Furio Lambruschi
Psicologo, Psicoterapeuta, ha lavorato per oltre trent’anni presso i Servizi di Neuropsichiatria Infantile dell’ASL della Romagna (Cesena) e attualmente esercita attività clinica presso il Centro di Terapia di Forlì, di cui è anche direttore e supervisore; Direttore e docente della Scuola Bolognese di Psicoterapia Cognitiva ad indirizzo Costruttivista ed Evolutivo (Ric. MIUR, sedi di Bologna, Forlì, Rovigo) e docente presso diverse altre Scuole di specializzazione in Psicoterapia italiane.
Già docente di Psicologia Clinica presso l’Università di Urbino e di Psicopatologia e Psicoterapia dell’età evolutiva presso l’Università di Siena. È autore o coautore di 12 volumi e di numerosi articoli scientifici nell’ambito della psicologia e psicopatologia dello sviluppo, della Teoria dell’Attaccamento e della psicoterapia.
Faccio parte del Tavolo tecnico di approfondimento in materia di disforia di genere di minori”. Avendo competenze primariamente psicologico-cliniche e psicoterapeutiche, trovo, in primo luogo, essenziale che il disegno di legge, al comma 1 dell’art 1, preveda espressamente (come criterio d’accesso al trattamento farmacologico) una specifica diagnosi da parte di una équipe multidisciplinare e soprattutto gli esiti documentati dei percorsi psicologici, psicoterapeutici ed eventualmente psichiatrici precedentemente svolti.
Attualmente sto coordinando il gruppo Diagnosi del Tavolo, per cui non posso che confermare che il problema della diagnosi rappresenta in effetti lo snodo cruciale di tutto l’intervento clinico nella DdG. Che, a mio parere, non sempre viene affrontato con la dovuta cura e completezza nei servizi che attualmente si occupano di tali problematiche.
Mi permetto, a questo riguardo, di segnalare a questa commissione che sarebbe opportuno introdurre e indicare più dettagliate descrizioni sul tipo di diagnosi richiesta e che l’equipe multidisciplinare dovrebbe essere in grado produrre.
La Cass Review dedica un intero capitolo a questo problema, auspicando un approccio definito olistico. Questo è, a mio parere, il punto dirimente. Occorre un percorso diagnostico complesso, non limitato alla sola diagnosi categoriale basata sul DSM (che rappresenta solo il sintomo portato da minore), ma esteso alla più ampia personalità del minore stesso cioè al suo funzionamento identitario cosa che, ahimè, raramente viene compresa e adeguatamente attuata nei protocolli attuali.
L’assunto di base è che “non è possibile trattare la DG in modo separato dal resto della persona”. Per cui si rende necessario un prolungato percorso di osservazione e di raccolta di dati orientato ad una complessa formulazione del caso che deve, appunto, essere in grado di distinguere due distinti livelli “diagnostici” fondamentali: la diagnosi descrittiva di DG, basata sugli indicatori previsti dal DSM5 per il bambino e per l’adolescente evidenziando gli aspetti transnosografici e le eventuali comorbidità come i disturbi del neurosviluppo o di salute mentale; e la più ampia diagnosi esplicativa o strutturale di personalità, il funzionamento identitario del minore, a partire dalla qualità dei legami d’attaccamento, successiva organizzazione del sé e strutturazione dell’identità personale (e di come, all’interno di questa, coerentemente prendono forma i vari aspetti dell’identità sessuale).
Ovviamente, entrambi i livelli diagnostici suddetti dovranno essere supportati dai più affidabili strumenti psicodiagnostici, con particolare riguardo alla consolidata strumentazione relativa ai disturbi del neurosviluppo, dei disturbi di personalità e dissociativi, del rischio suicidario e degli stili di attaccamento.
L’intervento terapeutico, dunque, dovrebbe essere guidato non solo e non tanto dalla diagnosi descrittiva di DG, ma da quella strutturale e dal significato che essa assume all’interno dell’assetto identitario e della più ampia organizzazione del sé dell’individuo.
Per quanto riguarda l’approccio psicoterapeutico: tutte le più recenti e importanti revisioni della letteratura scientifica (Svezia, Norvegia, Finlandia, drammaticamente la Gran Bretagna, e recentemente gli Stati Uniti con una aggiornata revisione “ombrello”)
- Oltre ad evidenziare (come sappiamo) i bassi livelli di evidenza sia nella sicurezza che nella efficacia dei protocolli esistenti e quindi a raccomandare estrema cautela nel procedere (con la triptorelina e con agli ormoni cross-sex), auspicando anzi che siano somministrati solo all’interno di un regime di sperimentazione controllata.
- Soprattutto, raccomandano proprio l’intervento psicologico-clinico e un percorso di psicoterapia (da più parti definito “esplorativo”) come intervento di prima linea nel trattamento della DdG.
Al di là dei comprensibili sforzi di de-patologizzazione e limitazione dello lo stigma portati avanti dall’OMS, in definitiva ciò che sta emergendo da tale mole di studi è che quella transgender è una popolazione complessa che ha bisogno di un’ampia e attenta assistenza psicologica, che in genere non riceve e che né la transizione sociale, né quella ormonale, né quella chirurgica risolvono pienamente i loro problemi di fondo.
C’è ampio consenso nella comunità scientifica sul fatto che il ventaglio di comorbidità presenti nella DdG è davvero vasto e ampiamente documentato. In particolare: Disturbi Ansia e i Disturbi dell’Umore che sono valutati da 4 a 7 volte più alti nella DG rispetto ai soggetti congrui con il loro sesso biologico (Becerra-Culqui et al. 2018); Disturbi di Personalità, specialmente il disturbo di personalità borderline (Azadeh M. Meybodi et al. 2022); Disturbi Dissociativi e la Schizofrenia (Roland Hasler et al. 2022; Fisher, K.A., et al, 2022; Stusinski, J, et al., 2018); Disturbi Alimentari (Jones B.A, et.al, 2016, Milano W. et.al, 2020, Gille G., 2023); Disturbi del Neurosviluppo (valutati da 3 a 7 volte più alti rispetto ai soggetti congrui con il loro sesso (Becerra-Culqui et al. 2018): in questo ambito particolare attenzione va posta ai Disturbi dello Spettro Autistico (Var Der Miesen et al. 2016, 2023; Kuper, 2019; Aimilia Kalilitsounaki et al.; 2022, Kahn, 2023, Bachman, C.J., 2024).
Dunque, assume grande rilievo valutare il possibile impatto o la reciproca relazione tra altri disturbi o altre problematiche identitarie e DG e individuare le forme di comorbidità che la DG può mascherare, impedendone l’inquadramento e la cura.
Inoltre, in una prospettiva psicopatologica complessa, occorre ricordare che una tale gamma di comorbidità presenti nella DG, oltre a rappresentare di per sé un importante elemento di complessità sul piano diagnostico e del trattamento, rappresenta spesso un indicatore di importanti compromissioni sul piano strutturale.
Tutte queste nuove evidenze e raccomandazioni, sulla carta, sono già state recepite anche in Italia dai due importanti pronunciamenti del Comitato Nazionale di Bioetica (2018 e 2024) e relative determine AIFA. Tuttavia non è affatto chiaro quanto siano state realmente e operativamente recepite dai Centri che in Italia si occupano di Diagnosi e trattamento della DdG (in gran parte basati e organizzati sul vecchio modello affermativo). Anzi, le linee guida prese ancora dichiaratamente in considerazione da alcuni dei più importanti Centri italiani (Hembree et al., 2017; Calcaterra et al., 2024; Hannema et al. 2024), pur contemplando la possibilità di un intervento psicoterapeutico, non ne definiscono una precisa strutturazione e non ne indicano con chiarezza la qualità vincolante rispetto al trattamento farmacologico.
Per cui, trovo assai opportuno, che ciò venga esplicitato e disposto nell’art 1 del disegno di legge, insieme al fatto che la somministrazione avvenga nel rispetto di specifici protocolli adottati dal Ministero della salute.
Così come, a mio parere, è non solo auspicabile ma anche urgente l’istituzione di un registro nazionale della DdG in capo all’AIFA (come previsto al comma 3), che consenta di monitorare nel dettaglio tutti questi aspetti del percorso diagnostico e terapeutico.
Non è accettabile che proprio in questo ambito, in cui le scelte terapeutiche possono segnare in modo indelebile e irreversibile tutto l’itinerario evolutivo di un ragazzino/a, si mantenga una tale opacità sui dati.
Di per sé il dato grezzo numerico comunicato dall’AIFA (sembra 90 minori), purtroppo non ci dice nulla proprio sull’appropriatezza nella somministrazione di tali farmaci.
Avremmo bisogno di sapere:
- Le modalità di accesso (come arrivano ai servizi, da chi sono visti in prima battuta, con quali modalità);
- Quali procedure e quali strumenti d’assessment vengono utilizzati (in alcuni casi ben pochi);
- Quanti hanno fatto un adeguato percorso psicologico e una psicoterapia con lo spessore che dovrebbe avere una psicoterapia esplorativa;
- quindi, sulla base di quali criteri diagnostici (descrittivi o di personalità) vengono prescritti i bloccanti della pubertà e poi eventualmente gli ormoni cross-sex;
- Altro aspetto importante!! in che misura passano dalla triptorelina agli ormoni cross-sex:In letteratura ormai risulta al 98%, cioè praticamente tutti, a riprova del fatto che i bloccanti non servono a prendersi tempo per capire ma incanalano direttamente verso una soluzione predefinita, cioè portano direttamente alla transizione (mentre sappiamo dalla letteratura che se lasciati liberi e tranquilli di sperimentare fisiologicamente la loro pubertà più o meno l’80% dei ragazzi/e con incongruenza, va in desistenza spontanea e si riallinea col proprio sesso biologico);
- E poi, che tipo di follow-up sono stati effettuati (punto cruciale, soprattutto a lungo termine; e non a breve, quando ancora il giovane è in fase come si dice di “luna di miele” con l’intervento).
Tutti questi dati, necessari per un documentato ragionamento clinico sull’appropriatezza dei percorsi attualmente seguiti, non sono attualmente disponibili: quindi, come già accennato, si ritiene urgente la costituzione di un registro nazionale sulla DdG, come ce ne sono da anni per malattie oncologiche, ematologiche, ma anche di tipo neuropsichiatrico. Valga ad esempio il registro in essere per l’ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività) nato, ricordo bene, da analoghe esigenze: analoghi problemi di monitoraggio dei percorsi di diagnosi e di cura, nonché legittime preoccupazioni (anche allora) rispetto all’appropriatezza nell’utilizzo di un farmaco, il metilfenidato (Ritalin). Tale registro nazionale ADHD ha favorito e garantito la trasparenza e la graduale appropriatezza prescrittiva entro questi difficili percorsi terapeutici, devo dire con grande soddisfazione in primo luogo da parte delle associazioni di genitori.
Anche in quel caso, ci fu grande attenzione al fatto che gli interventi di tipo psico-sociale rimanessero gli interventi di prima linea, evitando dove possibile la medicalizzazione del problema. Non ho dubbi che anche per la DdG l’istituzione di un registro nazionale possa avere analoghi benefici effetti.
Riguardo al problema della privacy, va anzitutto sottolineato che le modalità di gestione della riservatezza nei Registri Nazionali AIFA sono note e accessibili a tutti. Nella Gestione dei dati AIFA deve adottare misure adeguate a garantire l’integrità, la riservatezza e la sicurezza dei dati, come richiesto dal GDPR (regolamento europeo generale sulla protezione dei dati), utilizzando infrastrutture sicure per evitare la divulgazione non autorizzata di informazioni, prevenendo violazioni e accessi non autorizzati, e applicando principi come quello di minimizzazione dei dati e della loro conservazione per un tempo limitato.
Trovo curioso, comunque, che si ponga ora un problema di controllo e di privacy (che seguirà, appunto, le pratiche ormai consolidate in ogni intervento sanitario), su un’area così delicata della salute in età evolutiva dove semmai dovremmo interrogarci sulla opacità davvero preoccupante che c’è stata fino ad ora sui dati. Le Associazioni di Genitori che io conosco e con cui sono in rapporto non vogliono per i propri figli un indefinito ed ideologico “rispetto per le minoranze sessuali”. Vogliono interventi sicuri, efficaci e basati sulle evidenze scientifiche. Di qui passa il vero rispetto per qualunque minoranza e ambito problematico.
Riguardo alle implicazioni psicologiche connesse all’utilizzo dei bloccanti della pubertà, vorrei sottolineare che, al di là di ogni riflessione in termini di rischi/benefici di tipo medico (aspetti comunque di grande rilievo), sospendere lo sviluppo psicosessuale di un soggetto, in attesa che maturi una sua definizione identitaria stabile è in evidente contraddizione con il fatto che proprio questo sviluppo risulta uno dei fattori centrali del processo stesso di definizione dell’identità. È proprio un controsenso sul piano psico-sessuologico e logico: immaginiamo di garantirgli il tempo per chiarirsi, sottraendogli in realtà il substrato, la base corporea, somatica fondamentale per sentirsi e impedendogli di vivere le prime esperienze di attrazione e piacere sessuale. L’inserirli forzatamente in un percorso di sospensione dello sviluppo ha l’effetto diretto di impedire la fisiologica desistenza e avviarli in grande parte alla transizione. Dunque, non sono una pausa di riflessione, portano direttamente a transitare. Non danno tempo ai ragazzi, lo tolgono. Chi opera sottraendo ad un bambino la sua naturale spinta biologica, lasciandolo in balia dell’indefinitezza corporea e identitaria, deve essere consapevole che si sta assumendo una grossa responsabilità sul piano professionale. Ritengo che il nostro compito dovrebbe essere quello di introdurre consapevolezza e riflessività e non rispondere con agiti medici impulsivi che tra l’altro impediscono al ragazzo/a di focalizzarsi sul problema di personalità sottostante. Aiutare le persone a comprendere le motivazioni interne della loro sofferenza e i contesti di apprendimento e di sviluppo di tali convinzioni su di sé e sul mondo in modo, in modo da acquisire consapevolezza del proprio funzionamento e poi decidere autonomamente. Su questo si concentra da sempre il nostro lavoro clinico.
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