“Gli attivisti hanno conquistato i media, manipolato la medicina, danneggiato i bambini”

Riportiamo i contenuti principali di un articolo scritto da Mia Hughes e pubblicato il 18 marzo 2025 su Inside Policy, dal titolo “How gender activists stole the media, distorted medicine, and hurt Canadian kids”, dove la giornalista denuncia uno scandalo medico e mediatico di proporzioni allarmanti: la gestione della cosiddetta medicina di affermazione di genere per i minori in Canada.

In Italia accade esattamente lo stesso. I genitori vengono spaventati e spinti ad accettare i “trattamenti di affermazione del genere” con la – più o meno velata – minaccia dei suicidio del figlio (si vedano le dichiarazioni delle 12 società scientifiche sui benefici della triptorelina), mentre i media insistono nel mettere davanti alle telecamere bambini e adolescenti “trans”, vendendo la transizione medica come soluzione indispensabile a un disagio che, nella maggioranza dei casi, passerebbe con il semplice accadere della pubertà e della crescita.


Nel sistema sanitario canadese si stanno somministrando a bambini e adolescenti sani trattamenti invasivi come bloccanti della pubertà, ormoni incrociati e interventi chirurgici irreversibili, senza un fondamento scientifico solido e senza diagnosi cliniche chiare. Sono trattamenti che possono compromettere la fertilità, la funzionalità sessuale, la densità ossea, oltre a causare danni irreversibili a livello fisico e psicologico. Mia Hughes, già autrice dei WPATH Files, ha il coraggio di chiamare le cose con il loro nome:

“Alle ragazze adolescenti viene indotta la menopausa e ai ragazzi vengono praticate castrazioni chimiche e chirurgiche.”

Il punto centrale dell’accusa è che i media mainstream canadesi, invece di investigare in modo critico e responsabile, hanno adottato in modo acritico le narrative promosse dagli attivisti trans, presentando queste pratiche come scientificamente fondate, salvavita e indiscutibili. L’autrice sottolinea come testate autorevoli come CBC, CTV e Global abbiano rinunciato a un giornalismo equilibrato, divenendo portavoce di ideologie attiviste, ignorando le voci dissenzienti, le testimonianze delle vittime e le crescenti evidenze scientifiche contrarie.

Uno dei punti più controversi riguarda i bloccanti della pubertà, che i media continuano a definire una “pausa reversibile”, perpetuando un’idea molto pericolosa. Prima dell’introduzione di questi farmaci da parte dei ricercatori del protocollo olandese, la maggioranza dei giovani con disforia di genere superava naturalmente il disagio durante la pubertà. Tuttavia, con la somministrazione di bloccanti, quasi tutti proseguono verso trattamenti ormonali e chirurgici permanenti. Hughes chiarisce che: “Bloccare la pubertà, quindi, significa bloccare la cura naturale per il disagio legato al genere.”

L’autrice critica con forza anche la diffusione della narrativa del “meglio un figlio trans che una figlia morta”, ovvero l’idea che i giovani trans siano destinati al suicidio se non ricevono immediatamente trattamenti di affermazione di genere. Hughes giudica questa narrazione come la più perniciosa delle disinformazioni diffuse, notando che essa contraddice apertamente le linee guida sulla prevenzione del suicidio, le quali vietano di attribuire l’atto a una singola causa. La giornalista evidenzia come i suicidi completati in questa popolazione siano rari, mentre i pensieri suicidari sono generalmente associati a disturbi mentali preesistenti, molto diffusi tra i giovani che si identificano come trans.

“Se non avessi potuto iniziare questa terapia, probabilmente oggi non sarei più qui.” E’ la frase inquietante di un giovane trans-identificato. Un messaggio dannoso, soprattutto se rivolto a un pubblico infantile.

Hughes smonta anche il luogo comune secondo cui il rimpianto per questi trattamenti sarebbe raro, mostrando come le stime citate dai media – ad esempio, l’affermazione che solo l’uno per cento dei pazienti manifesta rimpianto – si basino su studi di qualità metodologica discutibile.

Una parte sostanziale dell’articolo è dedicata al ruolo centrale di WPATH, organizzazione definita da Hughes come un gruppo attivista, screditato da diverse rivelazioni, compresi i WPATH Files pubblicati nel 2024. Questi documenti dimostrano che membri della WPATH, compresi endocrinologi canadesi, erano consapevoli dell’immaturità cognitiva dei minori e dell’assenza di consenso informato reale, ma avevano continuato a promuovere tali trattamenti.

“I clinici dell’affermazione di genere stanno conducendo un esperimento non regolamentato su persone che si identificano come transgender”

Dal punto di vista mediatico, l’autrice ricostruisce un percorso in cui la libertà di stampa è stata soffocata dalla pressione degli attivisti. A partire dal 2011, con la trasmissione del documentario Transgender Kids sulla CBC, l’autrice individua un cambiamento drastico nel modo in cui le testate giornalistiche trattano il tema. Dopo le critiche pubbliche e le accuse di “violenza” da parte del gruppo Egale, la CBC si adeguò alle richieste, adottando linee guida editoriali suggerite da organizzazioni attiviste. Da quel momento, qualsiasi messa in discussione dell’identità di genere nei bambini o degli interventi medici venne etichettata come discriminazione.

L’articolo menziona inoltre il caso della giovane Leelah Alcorn, la cui tragica morte per suicidio nel 2014 fu strumentalizzata per rafforzare l’idea che le transizioni mediche fossero essenziali per salvare vite. Questo episodio, secondo Hughes, segnò un punto di svolta nella narrazione pubblica: i genitori vennero indotti a credere che negare l’accesso agli interventi fosse potenzialmente letale per i propri figli.

Un altro esempio di repressione del dissenso viene dal 2017, quando la CBC decise di non trasmettere il documentario Transgender Kids: Who Knows Best, dopo una serie di pressioni da parte degli attivisti. Il documentario includeva anche prospettive critiche, tra cui quella dello psichiatra Kenneth Zucker, che sottolineava come molti bambini con disforia di genere, lasciati maturare naturalmente, si rivelassero semplicemente omosessuali in età adulta. Nonostante l’equilibrio della produzione, la pressione politica ne determinò la cancellazione.

Hughes fa poi un paragone storico inquietante con il fenomeno della lobotomia, celebrata nei media statunitensi negli anni ’40 come cura miracolosa per disturbi mentali, salvo poi rivelarsi un orrore medico perpetrato ai danni di migliaia di persone. Così come la lobotomia venne diffusa da una stampa cieca e priva di senso critico, anche oggi l’idea che “alcuni bambini siano realmente transgender” viene ripetuta acriticamente dai media, generando un effetto contagioso tra gli adolescenti.

Hughes invita i professionisti dell’informazione a riscoprire il proprio ruolo fondamentale: indagare, porre domande, dare voce alle vittime e denunciare gli abusi.

“Ora è il momento di affermare chiaramente che non ci sono prove che l’affermazione di genere sia salvavita, che i bloccanti della pubertà non sono basati su evidenze scientifiche né reversibili, e che i tassi di detransizione sono in evidente aumento.”

Per oltre dieci anni, conclude Hughes, i media canadesi si sono fidati ciecamente di attivisti travestiti da esperti, ignorando le testimonianze di chi era stato danneggiato e tacendo di fronte alle richieste di trasparenza. Questo, secondo l’autrice, deve finire immediatamente.

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