L’appello di Del Giudice per una scienza libera dalla paura
Nel numero di luglio 2025 della rivista Psicologia Clinica dello Sviluppo, il metodologo e psicologo evoluzionista Marco Del Giudice firma un commento dal titolo “La disforia di genere e il silenzio degli scienziati” che rappresenta un’accusa diretta alla comunità scientifica di aver taciuto per troppo tempo, cedendo all’intimidazione ideologica e rinunciando al proprio ruolo critico nel dibattito sulla disforia di genere, in particolare nei minori.
Del Giudice, che ha lavorato a lungo negli Stati Uniti, propone una riflessione impietosa su come il discorso accademico e clinico si sia piegato a una narrazione unica, quella dell’“approccio affermativo”, senza mettere in discussione ipotesi, dati o risultati. L’omertà evocata nel titolo è quella che avrebbe reso impossibile per anni sollevare dubbi legittimi o proporre visioni alternative senza essere immediatamente bollati come transfobici o reazionari.
Una finestra americana sulla paura
Del Giudice racconta in prima persona l’atmosfera che si è instaurata nelle università nordamericane nel corso dell’ultimo decennio. Un clima che definisce di intimidazione sistematica, nel quale il dissenso scientifico veniva messo a tacere con accuse pubbliche, boicottaggi e pressioni professionali. Cita casi noti, come quelli di Michael Bailey, Lisa Littman e Ken Zucker, ricercatori denunciati e attaccati duramente (con pesanti conseguenze per la loro carriera professionale) per aver proposto interpretazioni alternative sulla disforia di genere o condotto studi dai risultati sgraditi agli attivisti.
Del Giudice ammette apertamente di aver evitato l’argomento nel suo libro del 2018 per non compromettere l’intero progetto editoriale. È una confessione rara nel mondo accademico, che apre uno spiraglio su quanto il timore della cancellazione abbia condizionato anche le voci più titolate.
Il caso italiano: Careggi e la triptorelina
La riflessione si sposta poi sul contesto italiano, dove Del Giudice individua un episodio emblematico: la pubblicazione della nota congiunta del gennaio 2024, firmata da dodici società medico-scientifiche, in difesa dell’uso della triptorelina (un farmaco usato per il blocco della pubertà) nel trattamento della disforia di genere in età evolutiva.
Il documento, molto ripreso dai media, definiva l’intervento come “salva-vita” e denunciava la “disinformazione” diffusa sull’argomento. Tale nota, secondo Del Giudice, era infarcita di affermazioni deboli o errate, a partire da un uso fuorviante dei dati sul rischio suicidario nei giovani transgender. Viene citato infatti uno studio del 2020 di Turban et al. che, secondo la predetta nota, avrebbe suggerito una riduzione del 70% dei tentativi di suicidio grazie alla triptorelina. In realtà, spiega l’autore, lo studio era molto debole, correlazionale, basato su questionari online; gli unici risultati significativi trovati dagli autori non si riferivano ai tentativi, bensì all’ideazione suicidaria, la cui riduzione, tutt’altro che dimostrata, sarebbe stimata in circa il 20% dei casi e non nel 70% come riportato erroneamente dalle società medico-scientifiche.
Questo errore, sostiene Del Giudice, non è solo statistico ma epistemico: usare uno studio metodologicamente fragile per promuovere un intervento farmacologico invasivo su minori è un esempio lampante di come il dibattito sia stato soffocato. E ancora più grave, a suo dire, è il silenzio che ha seguito la pubblicazione della nota: nessuna presa di posizione da parte di epidemiologi, statistici, suicidologi o psicologi dello sviluppo. Solo voci isolate, come quella dello psicoanalista Sarantis Thanopulos, hanno osato rompere il silenzio.
L’unica risposta autorevole e strutturata, sottolinea l’autore, è arrivata da GenerAzioneD, un’associazione di genitori con figli in situazioni di disforia di genere. Mentre la comunità scientifica italiana evitava il confronto, GenerAzioneD ha raccolto evidenze scientifiche, scritto lettere aperte e prodotto materiali informativi per sollevare dubbi sul reale profilo di rischio legato alla disforia, sull’efficacia del blocco puberale e sugli interventi affermativi. Un’attività di supplenza civile svolta nel silenzio delle istituzioni scientifiche.
Dove finisce la scienza, dove inizia l’ideologia
L’articolo lancia un avvertimento più ampio. Quando la scienza abdica al suo ruolo critico per conformarsi a una “verità ufficiale”, viene meno il suo patto con la società. Per Del Giudice, non si tratta di negare l’esistenza della disforia di genere né i diritti delle persone transgender, ma di denunciare la trasformazione di una questione clinica complessa in un dogma ideologico, inaccessibile al dibattito e impermeabile alla revisione.
In fondo, il cuore del problema è epistemologico e politico insieme. Chi decide cosa può essere detto, studiato, discusso? E che fine fa la scienza se rinuncia alla possibilità di sbagliare, contraddirsi e correggersi?
Un momento di svolta?
In un quadro così poco lineare Del Giudice si dice però moderatamente ottimista. Qualcosa starebbe cambiando, soprattutto dopo la Cass Review nel Regno Unito, che ha smontato punto per punto le evidenze a supporto del trattamento affermativo precoce nei minori. Come sottolineato nell’articolo di Furio Lambruschi sulla stessa rivista, in Italia come in altri Paesi si starebbe avviando un lento “recupero del buon senso”, anche se servono ancora coraggio e trasparenza.
Il suo intervento non si limita alla denuncia. È un invito, rivolto alla comunità scientifica, a guardarsi allo specchio e a interrogarsi sulla propria funzione sociale. Il rischio, suggerisce, è che i cittadini smettano di fidarsi non solo dei medici, ma della scienza stessa, percepita non più come un’impresa collettiva per indagare la realtà ma come un movimento di parte, al servizio dei dogmi politici del momento. E questo sarebbe davvero un danno irreparabile.
Conclusione
L’articolo di Del Giudice ha il grande merito di aprire un confronto necessario, quello tra scienza, etica e ideologia. In un’epoca in cui le questioni identitarie dominano il dibattito pubblico, la riflessione critica su come queste influenzino anche le pratiche cliniche e la produzione scientifica non è solo legittima, ma urgente.
Forse è davvero arrivato il momento per la scienza di tornare a parlare, anche quando la voce trema per il timore di esporsi, perché tacere, oggi, non è prudenza, ma complicità.