storia di detransizione MtF pentito

La storia di Federico: “Dopo l’intervento di riassegnazione di genere, è stata una vita terribile”

Un giovane ragazzo italiano di soli 24 anni ci ha raccontato la sua disforia di genere, l’esperienza di transizione a donna trans e il doloroso impatto con la realtà che ne è seguito e che lo ha portato a decidere di intraprendere il percorso di detransizione. Ci ha chiesto di condividere la sua testimonianza perché non vuole che altri giovani debbano soffrire come lui. Il suo coraggio e la sua forza sono commoventi. Da genitori di ragazzi con la disforia di genere non possiamo che ringraziarlo immensamente per la verità e la lucidità delle sue parole alle quali non serve aggiungere altro.

Siamo tutti con te, perché ritrovi la serenità che meriti.


Guardo l’ora sul cellulare. Sono le 06:34. Un’altra notte quasi insonne, un’altra mattina che sono i pensieri a svegliarmi.

È brutto che la maggior parte delle persone nella mia situazione si ritrovi a dover affrontare porte chiuse ovunque, dal campo medico alla comunità transgender. Alcune ricerche suggeriscono che la percentuale di rimpianto sia sotto l’1%, ma non può essere vero: non posso essere stato solo uno dei pochi sfortunati.

Dopo l’intervento di riassegnazione di genere, è stata una vita terribile. Quasi ogni giorno faccio fatica ad alzarmi dal letto e ho pensieri suicidi.

Ho raggiunto troppo tardi la realizzazione, dopo una crisi identitaria adolescenziale profonda, che la nostra psiche, il nostro essere, la nostra identità e il nostro carattere, sono indissolubilmente legati al nostro corpo.

Ho sì l’idea che esistano cervelli più maschili e più femminili, ma non credo che nasciamo nel corpo sbagliato.

A poco a poco, ho cominciato a maturare l’idea che siamo il nostro corpo e che non possiamo sfuggirgli, non importa a quanti interventi chirurgici ci sottoponiamo.

Da un anno a questa parte ho cominciato a svegliarmi ogni giorno con un profondo rimpianto per ciò che ho fatto al mio corpo e alla mia salute. Il mio corpo è cambiato in modo irreversibile e ora sarò per sempre infertile e intrappolato in un limbo.

Mi sveglio ogni giorno sapendo che la mia vita è finita e che non sarò mai più una persona libera, sarò sempre una macchina da soldi dipendente da farmaci e da medici.

La mia vita è stata rovinata per sempre e spero che nessun altro debba passare per quello che sto attraversando io.

Ci sono giorni in cui per me è difficile anche alzarmi dal letto. Mi sento debole ogni giorno perché gli ormoni mi rendono costantemente stanco.

Avrei voluto solo poter aspettare ancora un po’ per accettarmi.

Vorrei che qualcuno mi avesse detto che cambiare sesso è fisicamente impossibile. Vorrei che qualcuno mi avesse detto che il massimo che si può fare è castrare il proprio corpo. Vorrei che qualcuno mi avesse detto che vi è una libertà incredibile, nell’accettare le cose di noi che non possiamo cambiare.

Vorrei che qualcuno mi avesse detto che è normale sentirsi dissociati dal proprio corpo, che il tempo avrebbe portato un ricongiungimento con esso, anche se per tantissimi anni sono stato convinto fino alle ossa di essere “intrappolato” nel corpo sbagliato.

Vorrei che qualcuno mi avesse detto che la medaglia si sarebbe potuta completamente rovesciare, con l’enorme rischio di una presa di coscienza inaspettata, intrappolandomi per davvero, questa volta, in un corpo non mio.

Vorrei che questi interventi non venissero venduti come interventi di riassegnazione del sesso, perché non esiste un sesso da riassegnare.

Non esiste alcuna transizione da maschio a femmina e viceversa. È sempre lo stesso corpo che viene semplicemente castrato.

Sono stato seguito da una nota specialista di uno dei più grandi centri italiani di trattamento della disforia di genere, che dovrebbe essere un servizio di “consulenza” per persone che hanno difficoltà con l’identità di genere. Tuttavia, è più un “campo di indottrinamento”, dove non appena si varca la soglia, si è già pronti per la riassegnazione di genere.

Ha fatto il lavaggio del cervello ad adolescenti fragili in cerca della propria identità, dicendo loro che erano nati nel corpo sbagliato e che sarebbero stati venerati alle isole Samoa se avessero fatto la transizione, mentre la realtà per le persone transgender è molto più dura di quanto non venga rivelata.

Conducono test molto superficiali e auto-compilati, che sono molto facili da gestire per una persona che cerca una terapia urgente di affermazione di genere.

Ora vivo nella paura di uscire di casa ogni giorno a causa dell’enorme ansia che la transizione mi ha causato e mi sono completamente ritirato dalla società, finché non riassumerò un aspetto ‘normale’ e che mi faccia sentire nuovamente a posto e più al sicuro. Ho distrutto la mia vita e quella della mia famiglia. Non potrò mai viaggiare da solo perché dipenderò sempre dagli ormoni esogeni per sopravvivere e sarò inoltre a rischio di osteoporosi precoce e stanchezza cronica.

È molto triste essermi dovuto sottoporre a questo intervento chirurgico per svegliarmi da questo lungo sogno.

Condivido la mia storia perché l’assistenza che ricevono le persone che stanno abbandonando la transizione è ancora molto limitata e si tratta di un settore poco studiato e poco sviluppato. Ora sono in procinto di abbandonare la transizione sperando un giorno di tornare al testosterone così da poter almeno recuperare un aspetto normale e la forza sufficiente per affrontare la giornata.
Spero anche che un giorno la medicina rigenerativa o il campo delle cellule staminali trovino soluzioni per ripristinare gli organi e, non dico la fertilità, ma quantomeno la funzione ormonale naturale.

Spero che questa storia aiuti i pazienti a prendere decisioni più consapevoli e a non seguire un’illusione, perché svegliarsi alla realtà è la cosa più dolorosa e cruda che possa succedere.

Si rivela sempre più urgente l’expertise medica sul processo di dentransizione, ad oggi ancora praticamente inesistente, e il focus medico e l’esperienza clinica (che sarebbero in teoria ideati per salvare la vita dei pazienti e non il contrario), direzionati verso le persone che detransizionano.

Sono stato vittima di un vortice da cui è difficile uscire una volta caduti dentro, un fosso in cui nessuno ti tende una mano, una trappola istituzionale ed ideologica, che promette felicità e un di fatto impossibile cambio del sesso, che si fa gioco delle insicurezze e dell’età più fragile dei giovani, in cui hanno bisogno di tutto e subito, di specchi a cui aggrapparsi, di “identità-pacchetto” già pronte e definite, in cui soprattutto nell’era odierna hanno sempre più bisogno di soluzioni immediate, invece di lasciarsi il tempo per una lenta e talvolta dolorosa, ma più autentica scoperta di sé.

Il modello “affermativo” di genere è intrinsecamente fallace, perché basato su una bugia, e presuppone che ci sia un corpo “sbagliato” da “aggiustare”.

Ci convincono che i nostri ormoni naturali siano veleno per il nostro corpo. Ma non c’è nessun errore da correggere, nessun corpo da cambiare. Non per presa di posizione ideologica, ma per la semplice presa di coscienza naturale e matura che siamo indissolubilmente legati al nostro corpo e una maturazione della psiche porta alla comprensione che perfino il nostro carattere, la nostra personalità, il modo in cui ci muoviamo, sono il risultato del nostro corpo.

Noi cresciamo con il nostro corpo, e rinnegare il corpo è rinnegare l’essenza stessa di sé.

A 14-15 anni mi riconoscevo di più nel mio corpo adolescenziale, nonostante aspirassi a essere una donna, e questo riconoscimento è venuto mento verso i 16-17 anni per poi tornare a 24 anni. Nel mio caso si potrebbe forse dire che la crisi – il rifiuto del corpo, della maggiore comparsa dei peli – sia scaturito da un rifiuto della crescita in sé e del corpo che cambiava da “ragazzino” a “uomo”.

Nonostante fosse autentico il mio desiderio di avere la pelle liscia e senza peli, e parti del corpo femminili, col tempo ho capito che era impossibile.

Non tanto perché non fosse materialmente possibile, ma perché il nostro corpo è un’entità abitata e vissuta, e sentirci distanti dal nostro corpo non significa soltanto sentirci distanti dalla nostra sola apparenza, ma significa sentirci distanti dalla nostra essenza, dal nostro carattere e dalla parte che caratterizza noi in quanto esseri unici e irripetibili.

Nel mio caso penso nel profondo volessi diventare qualcun altro, trovare modelli di riferimento femminili esterni e diventare loro, perché non sapevo ancora chi fossi io.

Il mio “sentirmi donna” e diventare una donna era un volere “autentico” e sentito fin dentro alle ossa. Volevo essere amata e desiderata dagli uomini come una donna, non come uomo.

Pertanto non è attaccabile dalla comunità transgender come una “falsa pista” o un “abbaglio”: è stato un mio forte credo da quando ne ho memoria e per la maggior parte della mia vita. Per tali motivi empatizzo totalmente con la sofferenza di queste persone.

Tuttavia non credo che sia il modello “affermativo” di genere o diventare pazienti a vita la soluzione. Tale volere non andava rinnegato né affermato, ma semplicemente guidato verso la prima o poi inevitabile integrazione corpo-mente, che risulta in un naturale dissipamento di tali desideri.

La maturazione completa e totale della psiche comporta (nella maggioranza dei casi, a mio avviso) un riconoscimento dei propri pregi e difetti, un apprezzamento delle proprie qualità e un riconoscimento di ciò che si è e di ciò che non si è, di appartenere al proprio sesso di nascita e non a quello opposto e di essere perfettamente felici e completi così, possibilmente con cervelli più maschili o più femminili, ma sempre rimanendo noi stessi.

Questo eviterebbe il patto di dipendenza a vita con ormoni, ospedali, medici e farmacie e il costante rischio di perdita di densità ossea, tra gli altri.

Pertanto forse l’idea migliore è quella di riconoscere di sentire di avere un cervello possibilmente più appartenente al sesso opposto, ma di non agire su questa differenza, bensì d’integrarla in un corpo di per sé già autonomo che non ha bisogno di nessun ormone esterno o chimico per affermare la propria validità.

Alla domanda ipotetica di come avrei scelto nascere se avessi potuto schiacciare un pulsante, fino a non molto tempo fa avrei risposto ‘femmina’. Ma invece ora non desidererei altro di nascere me stesso, non di nascere secondo un genere, perché la mia personalità e unicità sono indissolubilmente legate a come sono, e non riesco ad immaginarmi in nessun altro modo.

Voler essere cosa non si è significa voler essere altro da sé.

Pertanto l’idea che mi sono fatto è che la disforia di genere non sia un disturbo, ma spesso una complessa fase evolutiva, e pertanto mentre la si attraversa il corpo non andrebbe assolutamente alterato in modo irreversibile, non importa quanto forte o dolorosa possa essere la convinzione.

Prima mi odiavo. Ora mi amo così tanto da odiare ciò che ho fatto al mio corpo.

È vero che sento di avere un cervello più femminile, ma con una scelta più matura e consapevole non è così che avrei scelto d’integrarlo nel mio corpo.

Trovo il concetto di sopprimere una parte a favore dell’altra paradossale, soprattutto considerando che prima o poi la parte soppressa riemergerà.

L’equilibrio va quindi trovato a priori, senza dover diventare un paziente a vita e sottostare a continui trattamenti ormonali.

Se il corpo è sacro, il corpo adolescente lo è ancora di più e pertanto va tutelato, non spinto lungo una via di irrimediabile non ritorno, soprattutto considerando che l’identità può continuare ad evolversi e cambiare oltre i 20 anni.

Nonostante la forza e la sofferenza con cui si manifesta la disforia di genere in età adolescenziale, come si può credere alla stabilità delle affermazioni e delle convinzioni, seppur fortemente radicate, dei giovani in una fase della vita in cui sono proprio le parole “instabilità” e “mutevolezza” a guidare il gioco?

La mia vita è stata rubata troppo presto, ogni mio giorno presente e futuro è privato di senso, per una decisione fatta quando non avevo materialmente gli strumenti per farla.

Le transizioni su giovani adulti sono il male di questo secolo, e dovrebbero essere considerate un crimine contro l’umanità.

Siamo esseri mutevoli, non siamo mai gli stessi, ma sempre noi stessi. E modificare il nostro corpo in modo irreversibile è sempre la scelta sbagliata. Significa intrappolare il corpo in una staticità e parzialità che non riflettono la mutevolezza e la totalità dell’animo umano.

Il mio forte disturbo ossessivo-compulsivo, sviluppatosi durante la “transizione” di genere, non era altro che un avviso, un allarme, del mio auto-impormi costantemente una sovrastruttura difensiva, una personalità fittizia e parziale, che rifletteva solo parte, ma non la totalità, della mia anima, e che invece sopprimeva, soffocava e toglieva voce, all’altra.

E per quanto convinte possano essere le persone transgender e per quanto possa prevalere la parte della propria persona che si vuole affermare, come si può rinnegare invece quella parte che ci ha accompagnato dalla nascita fino agli anni del cambiamento, essendo la prima realtà con cui ci scontriamo una realtà corporea?

Ho soppresso la parte maschile di me: quella più sensibile, con l’amore per il canto, la letteratura e l’arte, per privilegiare una parte che, invece, si occupava soltanto di esteriorità, e della continua lotta a “non essere riconosciuta”.

Nonostante io creda ancora ad oggi che esistano le identità transgender (e la mia esistenza travagliata dovrebbe esserne la prova), e che siano radicate nella biologia, nel nostro profondo modo di essere, non credo che sia la transizione ad essere la soluzione, con tutto ciò che essa comporta: dal diventare un paziente medico a vita al dipendere da ormoni esterni per vivere e rischiare continuamente la propria salute. Tutto ciò per continue derisioni e ansia sociale, e per non riuscire comunque a scappare al proprio corpo ed essere comunque riconosciuti dalla maggior parte del mondo come non appartenente al sesso d’identificazione.

Il personale medico e clinico dovrebbe quindi, per guidare i pazienti verso decisioni più informate, non trattenere informazioni, e rivelare i limiti: che la vita dopo questi interventi irreversibili potrebbe complicarsi maggiormente, che la transizione effettuata sarà sempre visibile a chiunque, e i conseguenti rischi per la salute.

Spesso capita d’inseguire un sogno, e di credere che i trattamenti ormonali apportino cambiamenti rivoluzionari. Sta pertanto agli “esperti” dei centri per l’identità di genere, ridimensionare questi sogni prima che si trasformino in tragedia.

È vitale che le persone che detransizionano vengano avanti e non si nascondano. Solo così si può aggiornare la ricerca con numeri reali riguardo ai pentimenti e solo in questo modo potrà esserci un maggiore incentivo a sviluppare linee guida per aiutare queste persone dal punto di vista medico, psicologico, e sociale.

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