Disforia o incongruenza di genere? Quando il linguaggio decide al posto della scienza

Negli ultimi anni, il cosiddetto approccio affermativo alla disforia di genere si è imposto come il paradigma dominante in molti contesti clinici, educativi e mediatici. Tale approccio si fonda sull’idea che la migliore risposta alla sofferenza vissuta da bambini, adolescenti e adulti che non si identificano con il proprio sesso biologico consista nel “prendere per buone” le loro autodichiarazioni di identità di genere e accompagnarli immediatamente, se richiesto, nei percorsi di transizione sociale, ormonale o chirurgica. 

Il linguaggio affermativo

Un aspetto fondamentale di questa visione è il linguaggio, che non viene percepito e utilizzato solo come un mezzo di comunicazione, ma anche come uno strumento attivo di affermazione, validazione e costruzione della realtà.

Il linguaggio usato dai sostenitori dell’approccio affermativo si presenta, a una prima analisi, come profondamente empatico e rispettoso. Espressioni come “persona transgender”“genere assegnato alla nascita”“incongruenza di genere” e “affermazione dell’identità” hanno lo scopo dichiarato di tutelare la dignità e l’autonomia degli individui. Tuttavia, a una lettura più attenta, questo linguaggio rivela una struttura ideologica rigida che può ostacolare una comprensione complessa e sfumata del fenomeno.

Uso del linguaggio come dovere morale

Altro elemento cruciale è il ruolo della performatività linguistica. Il pronome richiesto, il nome scelto, e persino l’obbligo di evitare riferimenti al sesso biologico vengono presentati non come atti simbolici o convenzioni sociali, ma come doveri morali. Ciò può condurre a una forma di coercizione linguistica, in cui il mancato utilizzo dei termini prescritti viene interpretato non come una divergenza di opinione, ma come un’aggressione identitaria. In ambito scolastico o terapeutico, questo atteggiamento può rendere difficile instaurare un vero dialogo aperto e protetto, dove anche i dubbi e i conflitti possono essere elaborati con maturità.

Infine, il linguaggio affermativo tende a semplificare una realtà che è, invece, estremamente eterogenea. Non tutti coloro che sperimentano disforia di genere desiderano una transizione e molti, soprattutto tra gli adolescenti, attraversano fasi transitorie di disagio legate a fattori psicologici, familiari o culturali.

L’enfasi sul “rispetto dell’identità auto-percepita” può escludere la possibilità di un percorso psicoterapeutico che indaghi le cause profonde del malessere, trasformando il linguaggio in un vincolo anziché in uno strumento di comprensione.

Da disforia di genere a “incongruenza di genere”

In tale quadro si osserva come il cambiamento radicale di prospettiva abbia trovato il suo apice nella sostituzione del termine “disforia di genere” con quello di “incongruenza di genere”.

Il termine disforia di genere è stato per lungo tempo utilizzato in ambito clinico per descrivere il disagio psicologico persistente causato dalla percezione di una discrepanza tra il sesso biologico e l’identità di genere di una persona. È un concetto che ha una connotazione clinico-diagnostica, inserito nei manuali di psichiatria (come il DSM-5), e che implica, almeno in parte, la presenza di una sofferenza soggettiva o di una compromissione funzionale. Al contrario, il termine incongruenza di genere, introdotto nel manuale ICD-11 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, sposta l’accento, poiché non si concentra più tanto sulla sofferenza quanto su una divergenza tra il sesso, che verrebbe “assegnato” alla nascita, e identità di genere percepita, presentata come una variazione naturale dell’esperienza umana. Questo cambiamento di terminologia riflette una volontà dichiarata da parte degli attivisti e sostenitori dell’approccio affermativo di depatologizzare le identità transgender, nell’intento di rimuovere lo stigma medico e psicologico e di trattare la trans-identità come una normale variante identitaria.

Dal punto di vista prettamente lessicale, occorre osservare che il termine “disforia” contiene in sé un carico semantico negativo (è l’opposto di euforia e quindi richiama dolore, disagio, malessere). “Incongruenza”, invece, ha una valenza più neutra e descrittiva, priva di giudizi impliciti. 

Inoltre, nel modello tradizionale, la diagnosi di “disforia di genere” era il prerequisito per accedere a cure ormonali o chirurgiche, era un filtro clinico. Sostituendolo con “incongruenza di genere”, invece, il focus si sposta sull’autodeterminazione della persona.

Questo linguaggio riduce il potere dei professionisti della salute mentale nel processo di valutazione, favorendo un approccio più diretto e rapido alle terapie affermative, anche per i minori, e connotandolo “a richiesta”.

Da esplorazione ad “affermazione”

Il linguaggio “affermativo” si inserisce in una cornice comunicativa dove l’espressione del desiderio individuale viene trattata come diagnosi e la chirurgia come risposta eticamente neutra. La parola affermativa attribuisce implicitamente un valore positivo a ciò che, in realtà, dovrebbe essere valutato caso per caso secondo criteri clinici e psicologici. In questa logica, il professionista sanitario non è più un medico che interviene per indagare le cause di una sofferenza, ma un mero operatore che “conferma” un’identità auto-percepita, anche quando questa percezione è instabile, influenzata da contesti esterni o da disagi più profondi non ancora esplorati.

Si tratta di un cambiamento non solo semantico, ma culturale: si passa da un modello terapeutico basato sull’indagine e la cautela a un modello prestazionale, dove la lingua giustifica e legittima atti chirurgici su corpi giovani, sani e spesso in fase di sviluppo, senza uno spazio sufficiente per la riflessione critica.

Anche in questo caso, il potere del linguaggio non è neutro: chiamare “chirurgia del torace” una mastectomia di seni sani non cambia la natura del gesto, ma cambia la percezione di chi lo ascolta o lo subisce e può contribuire a decisioni affrettate, soprattutto quando rivolte a minori o a giovani adulti vulnerabili.

Da bambini a “piccole persone”

Un esempio emblematico dell’approccio linguistico adottato da molti sostenitori dell’affermazione identitaria è l’uso crescente dell’espressione “piccole persone” al posto del termine “bambini”. Questa scelta terminologica non è casuale: sottintende una visione adultocentrica dell’infanzia, nella quale il bambino è concepito come un individuo già dotato di un’identità pienamente formata, sovrapponibile a quella di un adulto in miniatura, e dunque degno dello stesso grado di autodeterminazione. In questa prospettiva, l’autorità educativa e genitoriale è vista con sospetto, innestando un sentimento di diffidenza e di distacco verso coloro che potrebbero “imporre” un’identità diversa o anche ostacolare l’autentica espressione del sé.

Tuttavia, parlare di “piccole persone” invece che di “bambini” può condurre a gravi fraintendimenti. Il termine bambino porta con sé una dimensione di vulnerabilità, immaturità, dipendenza e bisogno di guida, che riflette accuratamente lo stadio evolutivo dell’infanzia. Sostituirlo con un termine che presuppone pari autonomia e competenza rischia di adultizzare il minore, attribuendogli una capacità decisionale e una consapevolezza di sé che semplicemente non possiede ancora, soprattutto in ambiti delicati come il genere e l’identità sessuale. 

Questa adultizzazione linguistica, sotto l’apparenza di rispetto, può tradursi in un abbandono del ruolo protettivo dell’adulto e in una delega prematura al minore di responsabilità per le quali non è psicologicamente e fisicamente pronto.

Non è dunque un caso che l’adozione di questa locuzione si accompagni, nei contesti affermativi, a una maggiore propensione ad accettare – senza alcuna esplorazione critica – le affermazioni identitarie dei minori, anche quando esse comportano scelte drastiche o irreversibili. In tal senso, il linguaggio non solo riflette una visione, ma contribuisce attivamente a costruirla e legittimarla. Il risultato è una narrazione che veicola il seguente messaggio: mettere in discussione o anche solo esplorare a fondo i vissuti di un bambino è una violazione della sua “verità”. Una prospettiva che può rivelarsi profondamente rischiosa per lo sviluppo sano e libero del minore.

Da sesso natale a “genere assegnato alla nascita”

Uno dei nodi centrali è l’uso della formula “genere assegnato alla nascita” o “sesso assegnato alla nascita”. Questa espressione sostituisce il concetto di sesso biologico, implicando che l’identificazione del sesso di un neonato sia una decisione arbitraria piuttosto che un dato oggettivo basato su caratteristiche anatomiche.

Il linguaggio affermativo tende quindi a presentare il sesso come una costruzione sociale più che come una realtà biologica, riducendo la complessità del rapporto tra corpo, identità e cultura a una narrazione ideologicamente orientata.

Inoltre, il lessico affermativo opera spesso una valutazione morale implicita. Termini come “affermazione”“validazione”“autenticità” e “cura affermativa” contengono connotazioni fortemente positive, mentre approcci più esplorativi o cauti vengono etichettati come “negazionisti”“transfobici” o “dannosi”. In questo modo, il linguaggio crea una dicotomia etica che limita il dibattito e delegittima ogni forma di riflessione critica, anche quando essa proviene da professionisti della salute mentale o da individui che hanno sperimentato una transizione con esiti problematici.

Da mastectomia a “chirurgia del torace”  

Un’ulteriore espressione della trasformazione semantica promossa dall’approccio affermativo riguarda il lessico utilizzato per descrivere gli interventi chirurgici di transizione. In molti ambienti clinici e attivisti, si sta progressivamente abbandonando l’uso di termini medici tradizionali come mastectomia o isterectomia, sostituendoli con espressioni più eufemistiche o “affermative”, come chirurgia del torace, chirurgia superiore (dall’inglese top surgery) o intervento di affermazione di genere. Anche la rimozione dei testicoli o del pene viene talvolta descritta in termini neutri o funzionali, come creazione di una neovaginachirurgia inferiore o chirurgia gender-affirmingevitando di menzionare ciò che viene rimosso.

Questa strategia linguistica mira a ridurre lo stigma e a rendere più accettabili percorsi chirurgici spesso radicali, ma al tempo stesso rischia di occultare la natura e la portata effettiva delle procedure.

L’eliminazione del linguaggio medico corretto può avere l’effetto di attenuare la percezione del rischio, minimizzare gli effetti collaterali e rafforzare una narrazione idealizzata della transizione. In particolare, nel caso di adolescenti o giovani adulti, questo tipo di terminologia può influenzare le decisioni, inducendo a sottovalutare l’irrevocabilità di certi interventi.

Da comorbidità a “co-occorrenza”

Davanti ai giovani che presentano disforia di genere insieme ad altri disturbi di natura psicologica o psichiatrica, l’utilizzo del termine co-occorrenza al posto di comorbidità rischia di essere una scelta fuorviante e poco rigorosa. “Co-occorrenza” è un termine vago e descrittivo che nasce dal desiderio di evitare la patologizzazione, rischiando in tal modo di oscurare la reale presenza di disturbi che richiedono attenzione da parte del curante e un trattamento specifico.

Questo approccio, apparentemente più inclusivo, può in realtà portare a una sottovalutazione dei bisogni clinici, con conseguenze negative per la salute globale della persona.

Un tipico caso di co-occorrenza si può osservare in un adolescente che presenta sia tratti dello spettro autistico sia una forte disforia di genere. Un ragazzo con diagnosi di autismo che manifesta difficoltà nella comprensione e nell’espressione delle emozioni, rigidità cognitiva e scarso adattamento sociale, può anche iniziare a esprimere un disagio intenso rispetto al proprio corpo, mostrando desiderio di intraprendere un percorso di transizione di genere. L’utilizzo del termine “co-occorrenza” rischia di banalizzare la complessità clinica, portando a una presa in carico superficiale che non affronta adeguatamente le difficoltà psicologiche, relazionali e comportamentali tipiche dell’autismo.

Il bambino “transgender”  

Un ulteriore elemento rivelatore del mutamento linguistico e culturale in corso consiste nel fatto che fino a pochi anni fa nessuno si sarebbe mai sognato di definire un bambino come “transessuale”. Questo termine era associato a diagnosi cliniche in età adulta e a percorsi di transizione che includevano interventi medici e chirurgici, ma soprattutto evocava in modo esplicito il concetto di sesso, sia biologico sia anatomico. Proprio per questa ragione, risultava impensabile attribuirlo a un bambino, perché si riconosceva che l’infanzia è una fase in cui l’identità, anche corporea, è ancora in formazione e pertanto sganciata da logiche che richiamano riferimenti prettamente sessuali.

Oggi, invece, è diventato socialmente accettabile parlare di “bambini transgender”, un termine che si presenta come più neutro e meno carico di implicazioni sessuali. Questo cambiamento non è solo linguistico, ma riflette una profonda trasformazione simbolica: sganciare il discorso sull’identità di genere da ogni riferimento al corpo o al sesso consente di rendere più “accettabile” l’applicazione di etichette identitarie anche a soggetti molto giovani. In buona sostanza, ciò che un tempo veniva considerato tabù, come parlare di identità sessuale nei bambini, oggi è stato reso culturalmente accettabile non eliminandone il contenuto, bensì cambiando esclusivamente le parole.

Il termine transgender funziona così come uno schermo semantico, poiché protegge dalla scomodità del corpo, ma al tempo stesso consente e molto spesso incoraggia scelte che possono portare proprio a modificazioni corporee, anche irreversibili.

Questo paradosso merita attenzione, soprattutto quando il soggetto coinvolto è un minore o un giovane adulto.

La modifica della percezione sociale 

Il cambiamento terminologico è quindi parte di una più ampia strategia politico-culturale volta a normalizzare e istituzionalizzare l’approccio affermativo. 

Modificare le parole significa modificare la percezione sociale e giuridicaSe non c’è più “sofferenza”, ma solo “incongruenza”, allora il ruolo della medicina diventa quello di accompagnare e non più di curareQuesto serve a rafforzare il diritto alla transizione come diritto civile, non come trattamento sanitario.

Purtroppo, questa sostituzione non è priva di criticità. Molti professionisti sottolineano che il termine disforia abbia ancora un senso clinico utile, in quanto descrive una condizione di sofferenza reale che richiede attenzione terapeutica, anche in ragione del fatto che non tutte le persone con “incongruenza” provano disforia.

Inoltre, rimuovere il termine disforia può ridurre l’attenzione ai vissuti psicologici profondi, privilegiando un approccio esclusivamente identitario e quindi più ideologico che terapeutico.

In quest’ottica di rischio, pur riconoscendo l’importanza del rispetto e della sensibilità nella comunicazione, è necessario e importante interrogarsi criticamente sul linguaggio promosso dall’approccio affermativo alla disforia di genere. Il rischio è che un lessico apparentemente inclusivo finisca per irrigidire il pensiero, censurare il dissenso e ostacolare l’approccio scientifico ed esplorativo necessario per accompagnare in modo responsabile le persone, soprattutto i minori, che vivono un profondo disagio identitario. Un linguaggio che vuole affermare, ma non ammette interrogativi, rischia di trasformarsi in un dogma che si afferma sulle spalle dei più deboli.

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