“Durante il lock-down ho capito: sono un maschio transgender”

“Posso parlarvi?” Certo tesoro.
“Durante il lock-down ho capito: sono un maschio transgender. Non capivo perché stavo così male, non capivo chi ero. I miei amici mi hanno aiutato a capire. Non pensiate che sia una fase, è così e basta”.

Un rapido accenno alla transizione… Un fulmine a ciel sereno, una coltellata in pieno petto.

Da qualche mese mia figlia quindicenne ha cominciato a vestirsi con felpe larghe e nere, si è tagliata i capelli -che aveva sempre voluto portare lunghi, curandoli meticolosamente-, ma mai avrei potuto pensare ad un simile risvolto.

Istintivamente, l’abbiamo abbracciata, l’abbiamo rassicurata sul nostro amore incondizionato e chiesto tempo per capire il da farsi.

Nonostante lo shock abbiamo avuto la lucidità di non accettare di utilizzare il nome maschile che ha scelto, proponendo un soprannome.
Durante il lock-down pensavamo che i social li avrebbero salvati dall’isolamento, invece capiamo che li hanno precipitati in un mondo di cui noi adulti ignoriamo tutto. È davvero il dramma della solitudine, che, preoccupati di salvare la famiglia dal contagio, abbiamo grandemente sottovalutato.

Per capire, faccio un account su TikTok

Ogni volta che ci entro vedo tantissimi profili di ragazze che magnificano il loro percorso FtoM, raccontando come erano “prima”, in maniera triste e negativa, e come si stanno finalmente “trasformando” nel vero sé maschile, con tutti i benefici possibili ed immaginabili.

La prima assunzione di testosterone diventa il nuovo compleanno, la data della rinascita. Mostrano i cambiamenti fisici, settimana dopo settimana, dando appuntamento ai followers allo step successivo. Alcuni commenti dimostrano l’identificazione tipica della fascia d’età preadolescenziale: “Sono proprio trans; il tuo video mi ha confermato quello che pensavo”

Molti soggetti giovanissimi si appiccicano all’identità che credono di aver trovato grazie a questi video cui giungono spesso attraverso la ricerca di specifici hashtag. Leggo commenti del tipo: “Ho sempre pensato che ci fosse qualcosa di sbagliato in me, e stavo cercando di capirlo. E ho usato internet per aiutarmi a farlo”.

È così che si trova il vero sé?

La stessa cosa avviene anche su Instagram e Youtube: vedo ragazzine che non solo ineggiano alla terapia ormonale, ma anche pubblicizzano Binder e, non ultimo, aspirano al grande traguardo della mastectomia bilaterale , che chiamano top surgery.
Scopro che ormai ogni adolescente sui profili social dichiara i suoi pronomi ( she/her, he/him, they/them) che definiscono il genere in cui si identificano. 

In rete trovo anche manuali di qualunque cosa: come vestirsi, come sembrare più alti, come truccarsi usando il mascara per simulare la peluria della barba, come simulare il ‘pacco’ maschile con un calzino opportunamente riempito da sistemare nel posto giusto… l’ossessione di queste ragazze, da cui dipende la riuscita dell’intera giornata, è quella di ‘passare‘ (per maschio).

Se nei negozi si rivolgono a lei al maschile mi lancia uno sguardo di sfida. Diversamente si chiude in un offeso mutismo.

Abbondano anche questionari ‘come capire se sono trans‘. Ne faccio uno io, notoriamente maschiaccia (ora si direbbe tom-boy): sono maschile all’80%. Sono trans?

Il lock-down le ha sorprese proprio nel momento della pubertà, in cui un confronto fra pari è fondamentale. Io non credo che mia figlia si sia mai innamorata, nemmeno platonicamente, che abbia provato le farfalle nello stomaco, che abbia mai baciato o che sia stata anche solo sfiorata da qualcuno.

È omosessuale? Non saprei, davvero. Trovo appunti in cui si definisce ‘frocio’. 

Cosa sa realmente del sesso e dell’amore?

Più mi addentro nell’argomento più faccio fatica a capire: generi, definizioni… Trovo un’etichetta anche per me: sono cisgender demisessuale, cioè mi identifico col mio sesso biologico (assegnato alla nascita!) e provo attrazione sessuale solo insieme all’amore. E dire che pensavo di essere semplicemente me stessa, banalmente innamorata di mio marito. Odio le etichette.

Studio, cercando conferme che si tratti di un turbamento che si accompagna ai cambiamenti del corpo femminile nella pubertà, e invece trovo solo psicologi che dicono ai genitori di accettare accompagnando  alla transizione, endocrinologi che parlano di somministrazione di ormoni sintetici come se fosse un‘ovvietà… l’angoscia mi divora.

Io sono un medico, credo fermamente nella scienza e nella biologia, e sentire parlare di sesso assegnato alla nascita mi fa veramente ribollire di rabbia. Come è possibile che venga tranquillamente sdoganato un simile concetto? Il sesso viene determinato al momento del concepimento dall’incontro di un ovulo ed uno spermatozoo. XX femmina, XY maschio. 

Ma questi esimi colleghi hanno presente le conseguenze di questi trattamenti che già al primo sguardo mi sembrano pericolosamente sperimentali? Sono consapevoli che comporteranno una medicalizzazione a vita?

Ma ancora più inaspettato, trovo in rete tantissimi genitori, pronti ad avvallare immediatamente l’autodiagnosi di 12enni che non hanno mai mostrato in passato un’incongruenza di genere, come se porsi delle domande fosse sbagliato e transfobico e segno di mancato amore per i propri figli.

Sono davvero esterrefatta. Il mio dunque non è amore?

Mi indirizzano da una psicologa che sembrerebbe molto brava e che si occupa di disforia di genere. Al primo incontro, solo io e mio marito, le raccontiamo la nostra storia: una famiglia unita, 3 figli desiderati, le gioie, gli inevitabili problemi. Ci rassicura, dicendo che la disforia di genere non porta inevitabilmente alla transizione, molti imparano ad accettare il proprio corpo… Incominciamo questo percorso speranzosi.

Al secondo incontro, al quale siamo presenti io, mia figlia e il padre, la psicologa chiede: “da quanti mesi ti senti maschio?” Poiché lei risponde da 8-10 mesi, la psicologa mi lancia uno sguardo che non mi convince. Per le linee guida attualmente utilizzate basta un periodo di 6 mesi in cui si senta congrua nel genere scelto per dichiarare la disforia… un brivido mi percorre la schiena, ma in quel momento siamo troppo provati per ragionarci su.

Intanto pretendo di conoscere i nuovi amici, che a causa del lock-down non avevo mai incontrato prima. Ora capisco chi sono coloro che l’hanno ‘aiutata a capire che è un maschio transgender.

Comincio a contattare le mamme del gruppetto, ci confrontiamo: scopriamo che tutte le nostre figlie  alterano la voce, cercando di parlare con un tono gutturale, si sono procurate e portano un binder, si vestono rigorosamente di scuro e con capi possibilmente lunghi ed informi, che coprano il più possibile mani e piedi che sono inevitabilmente piccoli per un maschio. Felpa con cappuccio o berretto scuro fanno ‘macho’.  Scopro che seguono un percorso codificato: il nome maschile (esistono siti che suggeriscono nomi per maschi transgender), i pronomi maschili, i vestiti larghi, il binder, il racconto rielaborato dell’infanzia a dimostrazione dell’identità trans, la sofferenza del crescere.

Seguono un copione uguale per tutte. Seguono i manuali in rete, e influencer che spiegano anche passo a passo cosa dire a genitori, insegnanti e terapeuti.

L’amica che sicuramente ha contribuito ad indirizzare il disagio di mia figlia in tal senso sembra decisamente un maschio, inizialmente non ho il minimo dubbio che lo sia, ci metto un po’ a capire. Capelli neri, sfilati , coprono in gran parte il viso. Camminata dinoccolata e molleggiata. Il buio nello sguardo.

Col passare del tempo vedo che mia figlia le copia il taglio di capelli e il colore (fa tutto da sola), compra le stesse felpe e pantaloni (lo scopro quando la accompagno a scuola), si fa persino le lentiggini come ‘l’amica’. 

Scopro che in classe sono almeno sette ragazze a dichiararsi trans, scopro che a scuola ha già fatto coming out con i professori e scopro che questi, oltre a non averci informato, la chiamano col nome maschile che si è scelta. Il suo nome di battesimo è ora il suo dead name, come viene accuratamente spiegato sui social.

Mi accorgo che in camera sua ha i pesi da palestra (comprati in uno slancio di buona volontà in passato e che mai nessuno ha finora utilizzato) per sviluppare muscoli da maschio. Con la bella stagione sfoggia bermuda con gambe non depilate.

Naturalmente vuole utilizzare i bagni maschili, ma qui bisogna essere chiari: si corrono dei pericoli a usare bagni sbagliati. L’estate scorsa, in piena crisi, andava in piscina con un’amica per tutta la giornata (rigorosamente con la divisa da spiaggia trans: calzoncini, binder e maglietta anti UV). L’ho guardata bene in faccia, ben specificando che i bagni della piscina, che sono anche spogliatoi dove si gira nudi, sono PERICOLOSI. Ha annuito con rabbia, ma non c’è andata. Non possiamo negare la realtà e assecondare le balle che il mondo racconta.

La sua psicologa ci invita ad frequentare un’associazione di genitori affermativi. Decliniamo fermamente. Ora capisco che ci voleva accompagnare alla transizione.

Scopro disegni spaventosi con mutilazioni, mastectomie, sangue, accenni suicidio… ma che madre sono?

Scopro che l’amica fa disegni pressoché identici. Scopro autolesionismo. La sua psicologa non se ne occupa: è evidente che dobbiamo cambiare strada.

Cerco di mia iniziativa un neuropsichiatra. Fortunatamente trovo una persona empatica, comprensiva, che mi racconta che praticamente tutti gli adolescenti che vede in questo periodo, dichiarano un nome diverso, un genere diverso, dei pronomi…

Vede mia figlia, percepisce l’estrema sensibilità, la paura di crescere, la paura del confronto con gli altri… Concentriamoci sul dolore, sulle sue cause, è quello il nocciolo della questione, la disforia è un sintomo.

Cambiamo, su sua indicazione, anche la psicologa.

Cambiamo anche noi, cerchiamo di ascoltare anche quello che non ci dice, cerchiamo di vederla con occhi diversi, con lo sguardo che le serve….

Cerchiamo di farle arrivare tutto l’amore possibile, di farle vivere una vita immersa nel mondo reale, cerchiamo di favorire le amicizie con amici più sinceri, senza maschere. Non ci mettiamo mai contro gli amici che non ci piacciono:rischiamo di fare peggio, siamo sicuri che ci arriverà da sola.

Infatti certe persone ‘tossiche’ spariscono, rimangono fortunatamente le amicizie che la coinvolgono, la fanno ridere, riescono a riportarla in una vita vera, non virtuale.

Siamo ben consci del fatto che i genitori che non affermano diventano nemici e rischiano di essere estromessi dalla vita dei figli. Dopo tanti mesi, e tanto lavoro sui di lei e su noi stessi, la neuropsichiatra ci dirà “non vi sente più come nemici”. 

Ora siamo più sereni. Di transizione non parla più. Ancora non ne siamo fuori, ma le cose vanno meglio. L’autolesionismo è un lontano ricordo (anche se rimangono le cicatrici), ha molti interessi e un gruppo di amici sinceri.

Cerchiamo con i fatti e con le parole di farle capire che noi l’amiamo, chiunque sia e chiunque diventerà.

Quest’anno nella sua scuola è stata approvata la carriera alias, alla quale non ci ha chiesto di aderire.

Cerchiamo di vivere la normalità della nostra famiglia senza farle pressione, lasciandole il tempo di capire chi è senza farmaci, senza forzature, senza spingerla in nessuna direzione, senza affermarla come maschio né forzarla ad ‘essere femmina’ .

Ha ritrovato il gusto della vita, ha scoperto delle passioni, sta facendo progetti per il futuro. In famiglia sia noi che i fratelli usiamo un linguaggio neutro, la chiamiamo con nomignoli. Il buio che aveva dentro non c’è più , spariti i terribili disegni di due anni fa, ha abbandonato i manuali e gli atteggiamenti uguali a quelli di tanti adolescenti infelici.

Stiamo scoprendo insieme chi sta diventando.


Parte di questa testimonianza è stata pubblicata nell’articolo “La nuova vita dei nostri ragazzi” sul numero di GRAZIA del 23 novembre 2023, pag. 61 e 62

Ti potrebbe interessare anche

Così è iniziato il nostro percorso affermativo

Cosa si cela in un nome? Lettera di una mamma

Alle nostre ragazze.

Perché non mi hanno fermata?