La disforia era un sintomo: “Mia figlia ora sta bene, ma io non dimentico”

Questa è la testimonianza di una mamma che ha lottato per sua figlia, e continua a lottare per tutti i giovani che cadono vittime di un’ideologia che gioca con le loro fragilità e si ripercuote sui loro corpi. Tempo fa, la stessa mamma aveva raccontato la sua storia qui.

Ora, passato più di un anno dalla desistenza di sua figlia, racconta del suo percorso e di come sia tornata a vivere.


Sono la madre di una ragazza che oggi ha diciotto anni. La mia testimonianza nasce dal desiderio di condividere il cammino doloroso, ma anche di speranza e rinascita, che io e mia figlia abbiamo vissuto.

Tutto è iniziato subito dopo il lockdown, quando mia figlia ha iniziato a mostrarsi come una persona diversa, dichiarandosi maschio. Non riconoscevo più mia figlia.

Durante il periodo di chiusura, trascorreva le giornate chiusa nella sua stanza, incollata al computer e allo smartphone. Lì, tramite vari social, aveva iniziato a seguire influencer transgender che raccontavano la loro esperienza con una superficialità disarmante, enfatizzando l’euforia di genere e dipingendo come meraviglioso far parte della comunità LGBTQIA+. Mia figlia, introversa e con difficoltà a socializzare, alle prese con i normali problemi dell’adolescenza, si è convinta che tutti i suoi disagi derivassero dall’essere nata nel corpo sbagliato.

Tutto è cominciato in modo quasi impercettibile: mi ha chiesto di tagliare i suoi bellissimi capelli, e io ho acconsentito, ignara di cosa stesse accadendo. Ha cominciato a vestirsi con abiti larghi e neri, e ho pensato che fosse una fase di ribellione adolescenziale. Ma poi ha smesso di mangiare, ha iniziato a praticare autolesionismo, e ho capito che dovevo intervenire.

L’ho portata da una psicologa. Dopo pochi incontri, la psicologa ci ha detto che mia figlia probabilmente soffriva di disforia di genere e ci ha suggerito di cercare informazioni su Google.

È stato l’inizio del periodo più buio della mia vita. Mi sono sentita sopraffatta dai sensi di colpa, incapace di capire cosa fosse accaduto e come mia figlia potesse essere cambiata così tanto. Ogni giorno era una lotta contro la paura di perderla. Mi sentivo sola, disperata e senza una guida. Ho toccato il fondo, arrivando persino a pensare che non avrei trovato la forza di andare avanti. Ma proprio in quel momento ho capito che dovevo reagire. Dovevo salvarla.

Ho iniziato a informarmi, a leggere studi scientifici e a riflettere sui ricordi dell’infanzia di mia figlia, che non mi avevano mai dato alcun segnale di una possibile disforia di genere. Ho sequestrato il suo smartphone e ho trovato prove di un evidente contagio sociale: discussioni, video, influencer e comunità online che spingevano verso questa identità. Nei suoi diari ho trovato lettere indirizzate a figure immaginarie, che sembravano appartenere a una sorta di “setta” virtuale. Anche suo fratello maggiore, leggendo quei testi, ha esclamato: “Mia sorella è finita in una setta.”

Indagando ulteriormente, ho scoperto che una ragazza più grande, dichiaratamente transgender, stava manipolando mia figlia. Lei la imitava in tutto: abbigliamento, atteggiamenti, comportamenti. Ho portato queste scoperte alla psicologa, ma la sua risposta è stata devastante: “Non porti sua figlia nei centri specializzati, la spingeranno solo verso la transizione. Nessuno indagherà sulle cause profonde del suo malessere.” Mi sono sentita ancora più sola, ma non mi sono arresa.

Ho cambiato scuola e ambiente a mia figlia, limitato l’uso di internet e iniziato a cercare un supporto adeguato. Dopo molte ricerche, ho trovato un centro specializzato lontano da casa, dove mia figlia ha intrapreso una terapia esplorativa durata due anni e mezzo.

Abbiamo affrontato insieme alti e bassi, ma non l’ho mai lasciata sola. Abbiamo ricostruito il nostro rapporto, passo dopo passo, riportandola nel mondo reale e allontanandola dalle illusioni di internet.

Nel dicembre 2023, il medico ci ha detto che la terapia era conclusa: mia figlia non soffriva più di ansia e depressione, e la disforia di genere era stata chiaramente un sintomo di quel malessere.

È stato come una rinascita. I suoi occhi hanno ricominciato a brillare, e mi dice spesso: “Ti amo, mamma.” Anche lei ha compreso quanto l’ho amata e protetta, combattendo con tutte le mie forze per salvarla.

Oggi mia figlia sta sbocciando nella donna che è destinata a essere.

Ma io non posso dimenticare il dolore che abbiamo attraversato e gli occhi spenti che avevo imparato a temere. Ho paura che possa ricadere in quella sofferenza, soprattutto se la società non cambia.

Questa società sta distruggendo giovani fragili e sensibili, con la complicità di politici, istituzioni, medici ed educatori.

Ho deciso di non arrendermi. Anche se mia figlia ora sta bene, ho fatto una promessa: combatterò contro questa follia estremista, spacciata per diritti civili, che rischia di distruggere altre vite. Con altri genitori amorevoli abbiamo fondato GenerAzioneD, per proteggere i nostri figli e sensibilizzare l’opinione pubblica su questa realtà. Sono una madre che ha avuto il coraggio di andare contro tutto e tutti per salvare sua figlia.

E continuerò a lottare, per lei e per tanti altri giovani, con tutto l’amore e la determinazione di cui sono capace.

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