Mio figlio, 20 anni: “Sono una donna lesbica in un corpo di uomo”

Mio figlio F. frequenta la piscina fin dai 2 anni, poi scacchi, poi numerosi altri sport.

Chiede di poter frequentare anche un corso di calcio, ma per noi non era possibile; questa impossibilità rimane fonte di attrito per anni. Quando ha 14 anni riusciamo finalmente a iscriverlo a calcio.

Fino a 13 anni è chierichetto fisso, sempre presente in chiesa e nelle attività ricreative. Il mondo del calcio, la sua squadra del cuore, l’Italia, i mondiali sono da sempre al centro del mondo di F., che colleziona maglie delle squadre di calcio, ne ha decine e decine. Le partite sono l’occasione per stare insieme: andare a vederci la partita insieme – tutti insieme – è sempre occasione di festa, e anche se la squadra perdeva eravamo felici.

Nonostante abbia iniziato a 14 anni compiuti, anche nel calcio si dimostra bravo: non sempre gioca, ma è quasi sempre convocato alle partite regionali. La potente prestanza fisica, anche grazie agli anni passati a fare nuoto, lo aiuta. A 16 anni però capisce che praticare calcio non gli interessa più, ora sono le arti marziali, che prima praticava solo saltuariamente, a diventare la sua ragione di vita. È talmente portato, diligente e meritevole, che il suo Maestro d’aria a 17 anni gli propone di diventare il suo discepolo; a quel punto però non gli interessa più e lascia.

Per quanto riguarda la scuola, gli ottimi voti con i quali esce dalle medie gli consentono di accedere a una classe sperimentale. Abituato ad essere il primo della classe, elogiato ed apprezzato dai professori, si trova ora in compagnia di ragazzi altrettanto bravi, in un ambiente molto competitivo e di conseguenza inizia ad avere qualche difficoltà didattica. Durante i 5 anni delle superiori i suoi migliori amici cambiano zona e si trova solo.

È in questo momento che inizia a frequentare un gruppo variegato di ragazzi LGBT, di cui fanno parte ragazzi con molte tipologie di problemi legati al genere. Queste nuove frequentazioni non ci creavano problemi, dunque gli abbiamo lasciato frequentare il gruppo con serenità.

A un certo punto F. diventa instabile, mi accusa di non essere stata una madre degna e attenta, sulla base del fatto che da piccolo aveva fatto solo i vaccini obbligatori. Le sue parole iniziano a cambiare, passa agli insulti, ma io e suo padre diamo la colpa agli ormoni adolescenziali.

Di lì a pochi mesi arriva il Covid, e proprio l’anno della maturità, delle feste dei 18 anni, dei campi scuola, quello che doveva essere l’anno più felice e carico di emozioni si trasforma presto in un incubo. Per mesi la DAD lo incolla davanti al PC e il resto del tempo è speso sui libri manga o davanti allo schermo, sui canali YouTube e dentro Instagram, ma soprattutto a giocare on-line con la Playstation per ore, che diventano giorni interi.

L’estate successiva conosce una ragazza e sembra rinascere; finalmente è contento, insieme sono belli da vedere e da percepire, poi all’improvviso di nuovo irascibile, turbolento, arrogante.

Lascia la ragazza, perché deve rifarsi una vita – dice – da donna, per questo motivo a 20 anni ci dice, di punto in bianco, di sentirsi una donna lesbica nel corpo di un uomo.

La voce che nel determinato Ateneo ci fossero degli insegnati trans si diffonde, come la sua determinazione a frequentarla, quindi decide – senza possibilità di dialogo – di iscriversi alla facoltà opposta rispetto al tipo di studi finora frequentati.
In pochi mesi cambia idea sulla facoltà, diviene ateo, si chiude nella sua cerchia di conoscenze che chiama amici, ci chiude fuori dalla sua vita.

Noi non sappiamo più niente dei suoi corsi: paghiamo rette e abbonamenti, compriamo i libri, gli paghiamo la macchina. Con enormi sacrifici riusciamo a dargli qualcosa per lo svago: le sigarette (che consuma in quantità industriali), i concerti, da bere, probabilmente qualche canna.

Conosce una psicologa affermativa dello sportello di ascolto della facoltà, che sembra – dopo pochi incontri gratuiti – già disposta a rilasciargli il nulla osta per iniziare la terapia ormonale.

Con il cuore trafitto, ma pieno di amore per lui (che sostiene di non averlo mai percepito), gli diciamo che ha bisogno di darsi e darci tempo per capire; lo preghiamo di portare avanti gli studi e iniziare a farsi seguire seriamente da qualcuno.

Prendiamo tempo, vogliamo che cresca, perché questo percorso, una volta iniziato non potrà essere semplicemente interrotto, come uno sport, una scuola, una relazione.

Cominciano litigi furiosi, abbiamo paura della sua ira e della violenza anche fisica. Accusandoci di non accettarlo, ci dichiara guerra – di colpo siamo “il nemico”, la sua famiglia è il passato da sopprimere, i bastardi da togliersi da torno – e ci taglia fuori dalla sua vita, ma pretende di essere mantenuto e anche che gli paghiamo un affitto. Non accettiamo il ricatto perché non possiamo permettercelo e perché abbiamo il terrore di perderlo, quindi inizia una guerra di insulti, minacce e violenza psicologica.

Tra un ricatto e l’altro, dopo l’ennesima lite furibonda di bestemmie e violenza, ci parliamo di nuovo con il cuore in mano.

Con la disperazione nel cuore cerco sui social qualcuno che sappia cosa sto passando, qualcuno che come me trema all’idea che suo figlio si rovini, non avendo la certezza che la transizione sia davvero quello che gli manca per essere felice.

Per la prestanza fisica o il numero di scarpe non esistono interventi chirurgici. La vita quotidiana, il lavoro, la famiglia… niente potrà essere più svolto in maniera naturale. Andrà incontro a una vita difficile, i farmaci saranno per sempre il cibo quotidiano.

Quando ho trovato il gruppo Facebook di GenerAzioneD ho finalmente conosciuto persone come me, che rimangono con i piedi per terra e dicono “per favore non così in fretta”.

Non sono disposta a dire SI senza dati concreti, senza certezza della veridicità di una disforia che si è manifestata a 19-20 anni all’improvviso, del fatto che un intervento medico sia veramente quello di cui ha bisogno mio figlio per tornare ad essere il ragazzo che conosco.

Dietro a questa maschera di sofferenza, percepisco che la disforia non è il vero problema.

Quando ho conosciuto alcuni rappresentanti del gruppo, finalmente non mi sono sentita più sola e senza speranza. Avevo già provato a chiedere aiuto in passato, ma ero incappata in persone affermative, che con entusiasmo cercavano di impormi di essere contenta perché mio figlio mi aveva messo al corrente e mi incoraggiavano ad affrontare il lutto della perdita di un figlio e la rinascita di una splendida ragazza. Volevo solo morire e ci sono andata vicino.

Grazie all’Associazione sono riuscita a mettermi in contatto con dei professionisti seri e, nonostante F. abbia più di 20 anni e continui il suo percorso affermativo, ha accettato una valutazione psicologica seria di cui attendiamo gli esiti. Comunque vada, non siamo più soli.

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