La nostra storia (di identificazione trans e desistenza)
Pubblichiamo la storia raccontata da una delle mamme fondatrici di GenerAzioneD, che dopo la desistenza di sua figlia continua a lottare per un’assistenza migliore ai ragazzi che soffrono per la disforia di genere.
Mia figlia è stata sin da piccola quella che ora si definirebbe una bambina non conforme, ai miei tempi si sarebbe definita un maschiaccio. Proprio come ero io da bambina.
Mi ci rivedevo tanto in lei e quindi l’ho sempre assecondata. Mai una gonna, mai un fiocchetto, mai un vestitino, mai uno sport femminile, mai un colore rosa. Ma non ha mai neppure messo in discussione il suo essere femmina e non ha mai rifiutato il suo corpo!
L’adolescenza è stata difficile, ma per certi versi mi sarei aspettata di peggio. Solite cose: la ricerca di un gruppo di appartenenza, le amiche che non sempre capivano e accettavano il suo essere più interessata a leggere un libro piuttosto che andare in discoteca, le domande sulla sua sessualità. Ogni tanto metteva una gonna, i primi trucchi, i buchi alle orecchie… Insomma, una ragazza che faceva i suoi primi passi verso una definizione di sé e verso l’ingresso in un mondo adulto.
Poi è arrivata la pandemia. Aveva 17 anni. Ha trascorso ore chiusa in camera al computer, a chiacchierare fino a notte fonda con amici online conosciuti su Instagram, che scoprirò successivamente appartenere al mondo trans.
Purtroppo, alla fine del primo lock-down ci dobbiamo trasferire in un’altra città per motivi di lavoro. Ovviamente, lasciare gli amici ed entrare in una classe nuova al quinto anno di liceo senza conoscere nessuno non è stato facile, ma lì trova l’amore in una ragazza. Io ero felicissima perché finalmente sperimentava l’amore.
Inizia il secondo lockdown.
Di nuovo isolamento, solitudine, di nuovo ore trascorse al computer, l’amore appena trovato che finisce.
Inizia a stare male, crisi di pianto, scarsa igiene, disturbi alimentari, autolesionismo.
Tre mesi molto duri durante i quali compie 18 anni. Dopo poche settimane, mi chiede di accompagnarla in ospedale perché ha ideazione suicidaria.
La ricoverano in psichiatria.
Esce dall’ospedale dopo dieci giorni con diagnosi di Depressione Maggiore con spunti psicotici, imbottita di antidepressivi, antipsicotici e ansiolitici e inizia la lenta metamorfosi.
Quasi una checklist.
- Taglio di capelli: fatto!
- Abiti larghi maschili: fatto!
- Binder comprato di nascosto: fatto!
- Mutande da uomo: fatto!
- Videochiamata serale con amici online che approvano e celebrano ogni passo: fatto!
Insomma, sei mesi durante i quali io assistevo al cambiamento e aspettavo la dichiarazione che puntuale arriva a fine anno scolastico:
mi sento uomo, chiamatemi con il nome che ho scelto (rigorosamente anglofono!) e usate i pronomi maschili.
Un pugno allo stomaco.
Però io non posso dire che non me l’aspettassi, mi ero fatta anche io fare il lavaggio del cervello. La figlia di una cara amica, amica di mia figlia sin da piccola, stava iniziando la transizione. Ed io erano mesi che cercavo informazioni online e mi ero convinta che la depressione derivasse dal suo essere nata nel corpo sbagliato!
A mia discolpa devo dire che non trovavo voci fuori dal coro, non c’era una narrativa diversa; se tua figlia o tuo figlio ti dicono che sono nati nel corpo sbagliato c’è un’unica risposta: la transizione.
E allora contatto i due più grandi e attivi gruppi di genitori italiani che completano l’opera di convincimento: è bello che tua figlia abbia scoperto il vero sé, è bello che si voglia autodeterminare e voi siete genitori meravigliosi che la amano e vogliono accompagnarla in questo percorso.
Eppure, io avevo tanti dubbi, era tutto troppo improvviso. E poi perché così tante ragazze? Sembra quasi un’epidemia!
Però ovviamente loro avevano una spiegazione e una risposta ad ogni domanda. E poi c’era sempre il subdolo e minaccioso sottotesto: preferisci UN FIGLIO vivo o una figlia morta?
E allora mia figlia diventa MIO FIGLIO e ogni volta che devo chiamarla o riferirmi a lei il cervello va in corto circuito e lo stomaco si stringe un pochino di più.
Una di queste associazioni mi consiglia uno psicologo specializzato che tratta la disforia di genere da 20 e passa anni.
In appena due mesi e una decina di incontri, la metà online, durante i quali lo psicologo ammette che si, ci sono dei problemi psicologici sottostanti dovuti a traumi non elaborati, ma che evidentemente non avevano la priorità rispetto alla transizione, perché LEI decisamente RAGIONA DA UOMO (!). Mia figlia viene spinta a fare la transizione sociale, a presentarsi col nome maschile ovunque, a comprare abiti e biancheria nel reparto maschile, ad usare i bagni pubblici degli uomini, a comprare schiuma e lametta per farsi la barba! La motivazione? “Se non prova come fa a sapere se è davvero questo quello che vuole?”
Certo una cosa singolare da dire ad una ragazza che ha traumi da elaborare ed è in un periodo psicologico difficile.
Come fa una persona così confusa e così fragile a dire davvero cosa vuole? Lei vuole stare bene! Farebbe qualunque cosa pur di stare bene!
E le hanno detto che questa cosa la farà stare bene! SÌ perché ovviamente online, la sua fonte di informazioni quotidiane, ti dicono quanto sia euforico fare la transizione, prendere ormoni e fare mastectomie bilaterali.
Intanto mia figlia ha ancora la depressione, intanto mia figlia ancora si taglia, intanto mia figlia ancora si disegna barba e baffi finti, intanto mia figlia ancora indossa il binder anche la notte, intanto mia figlia ancora non sta meglio!
Lo psicologo, preoccupato del fatto che lei non stia bene e che debba partire per andare all’università, decide di accelerare i tempi e ci manda da un endocrinologo privato con cui collabora, per la prescrizione della Triptorelina, un farmaco che solitamente viene prescritto per trattare i tumori o la pubertà precoce. Terapia da fare a casa, per poi iniziare eventualmente il Testosterone dopo 3/4 mesi.
Mia figlia rifiuta, dice che vuole fare direttamente il Testosterone e che a questo punto si farà seguire nella città dove sta per trasferirsi. Parte per l’università e da settembre a dicembre sta sempre peggio.
Nonostante la transizione sociale, nonostante i farmaci, nonostante stesse facendo quello che voleva, continuava ad avere depressione e autolesionismo.
Io a quel punto inizio ad avere dubbi e a cercare informazioni online su un diverso modo di affrontare il problema ma non trovo nulla in Italia, solo un gruppo americano su cui inizio a raccogliere informazioni diverse dalla solita narrativa affermativa.
Lei cambia terapeuta e la nuova psicologa che la segue (ovviamente affermativa) le aggiunge ancora una diagnosi: AUTISMO! Probabilmente basandosi sul fatto che in quel periodo lamentava fastidio per suoni troppo forti e rumori.
Una diagnosi davvero assurda che le è stata “cucita addosso” per far combaciare i vari pezzi della narrativa trans e che, infatti, si rivelerà, in seguito, del tutto infondata.
Quando torna per le vacanze di Natale è in condizioni fisiche e psicologiche pietose. In quel momento, nel preciso istante in cui l’ho vista ho deciso: BASTA!
Le dico che abbiamo seguito la sua strada e non ci ha portato da nessuna parte, che si deve fidare di me e del padre e che dobbiamo tentare una strada diversa.
Non la facciamo ripartire per l’estero, smettiamo di usare il nome di elezione e i pronomi maschili, tornando gradualmente al suo nome e ai pronomi femminili. Abbiamo trovato uno psicologo col quale siamo stati molto chiari: bisogna lavorare sui suoi traumi, sulla sua ansia, sulla sua depressione, ricostruire la sua autostima, bisogna rimetterla in piedi e POI capire se una volta risolto tutto la disforia o il desiderio di transizione persistono.
Lei si è affidata anche se insisteva col dire che era convinta di voler fare la transizione.
Troviamo uno psicoterapeuta che lavora prima di tutto sul suo vissuto e sui suoi traumi.
Sono passati quasi 3 anni da quel giorno e mia figlia è rinata con l’aiuto di quello psicoterapeuta che, invece di assecondarla nelle sue convinzioni, l’ha aiutata a capire perché stava male.
Non assume più farmaci, non si taglia più, ha elaborato i suoi traumi, ha lavorato sulla sua autostima, ha costruito la sua personalità. È a suo agio nel suo corpo e nel suo genere, si declina di nuovo al femminile e usa il suo nome. Frequenta con profitto l’università e si mantiene agli studi con dei lavoretti. Non fa più autolesionismo e ha costruito una rete di amicizie che la rendono felice.
Quanti genitori non hanno avuto la mia fortuna di riuscire a trovare la forza di dire no assumendosi un rischio, andando contro tutto e tutti, prendendosi la responsabilità di dire: mia figlia non si suiciderà perché sa che noi la amiamo.
Se mia figlia avesse iniziato il percorso, come lo psicoterapeuta “specializzato in disforia” raccomandava, ora sarebbe rovinata a vita!
Possiedo ancora la relazione che aveva scritto per l’endocrinologo per motivare l’inizio del percorso che lei avrebbe dovuto fare e mi chiedo quanti ragazzi stia rovinando in questo momento.
Questo è il motivo che mi spinge a lottare ancora per divulgare notizie e creare consapevolezza: è come se salvassi ancora una volta mia figlia.