Esclusiva: “L’impatto della disforia di genere sulla famiglia”, degli psicoterapeuti M. Desana e F. Vadilonga

Ringraziamo gli psicoterapeuti Mara Letizia Desana e Francesco Vadilonga per questo prezioso contributo, in esclusiva per GenerAzioneD.


Mara Letizia Desana

Psicologa psicoterapeuta ad indirizzo sistemico familiare. Ha lavorato presso il CTA di Milano dove svolgeva attività clinica con minori e famiglie. Ha coordinato a Legnano il Consultorio Familiare dell’Azienda SOLE. È specializzata nel sostegno alle adozioni difficili e nella presa in carico delle crisi adottive. È specializzata nel trattamento di preadolescenti, adolescenti e giovani adulti con problematiche di disforia/incongruenza di genere e traumi. 

Francesco Vadilonga

Psicologo, psicoterapeuta, co-direttore della scuola di specializzazione in psicoterapia IRIS di Milano, dove svolge attività didattica, clinica e di ricerca. È stato Direttore del Centro di Terapia dell’Adolescenza (CTA). Ha fondato e coordina il Servizio specialistico di sostegno alle adozioni difficili e presa in carico delle crisi adottive e più recentemente il Servizio FARO (Figli Adottivi alla Ricerca delle Origini). Ha coordinato un gruppo di lavoro per lo sviluppo di un modello manualizzato di psicoterapia per le famiglie adottive, che integra l’orientamento sistemico-relazionale con gli studi e le applicazioni cliniche della Teoria dell’Attaccamento. Impegnato da molti anni nell’ambito della cura del trauma, nella tutela minorile e nell’intervento clinico nelle situazioni di maltrattamento e abuso sessuale, nella conduzione degli interventi di affido familiare. È CTU in ambito civile e penale e responsabile del corso di Mediazione Familiare del CTA riconosciuto dall’AIMS (Associazione Internazionale Mediatori Sistemici). All’interno del  CISMAI (Coordinamento Italiano Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia) ha coordinato la commissione di studio sulle linee guida che ha prodotto il documento “Requisiti di qualità per gli interventi a favore dei minori adottati”. Svolge attività formativa e di supervisione nell’ambito di servizi pubblici e privati.  Ha partecipato come relatore a diversi convegni nazionali ed internazionali ed è autore di alcuni libri e numerosi articoli. È membro di Società scientifiche nazionali e internazionali.


La disforia come trasformazione identitaria della famiglia

La sofferenza psichica di un membro della famiglia coinvolge tutto il sistema familiare. Per quanto la scelta di intraprendere un percorso di transizione sia del figlio, tuttavia un cambiamento così radicale si ripercuote sull’intera famiglia. Ha un impatto profondo e destabilizzante su tutti i membri del nucleo familiare e mette in discussione l’identità di ciascuno. Figli e genitori entrano reciprocamente in un profondo cambiamento identitario nel quale i genitori scoprono istanze del figlio finora sconosciute e spesso contrastanti:

  • Io non sono chi vi aspettate che io sia 
  • Il rapporto con voi è possibile solo alle mie condizioni
  • Io dipendo dalla vostra approvazione
  • Ho bisogno del vostro supporto
  • Dimenticatevi del figlio che sono stato

Confrontarsi con un figlio che si identifica con il genere opposto e che, con risolutezza, richiede di poter iniziare un percorso di transizione, può generare una gamma di emozioni, che vanno da un forte disorientamento ad una totale disperazione e senso di impotenza, che spinge i genitori a domandarsi cosa possa aver condotto il figlio a quello che da parte della famiglia può essere vissuto come una richiesta inderogabile, alla quale viene chiesto di aderire in maniera perentoria.

La ricerca della propria identità, invece di essere una impegnativa ricerca individuale, diventa un percorso già tracciato, prima attraverso l’assunzione di ormoni, poi attraverso la transizione sociale e infine con interventi chirurgici, che compromettono spesso irrimediabilmente traiettorie di sviluppo.

Bisogna inoltre considerare il contesto sociale nel quale è in atto l’incremento di ragazzi che dichiarano di voler accedere alla transizione. Il contesto socioculturale ha storicamente influenzato l’insorgenza delle psicopatologie e oggi una parte di esso enfatizza il cambiamento in modo acritico e superficiale e promuove, come unica risposta ad un disagio profondo e spesso più articolato, la medicalizzazione del corpo. Per quanto questo sentire sociale possa normalizzare e validare la trasformazione, tuttavia vengono minimizzati i rischi e i pericoli. 

Dice una mamma: “tutti gli dicono ‘che bello, che bello’… solo io gli dico quanto fa male…”

Se approcciamo questa problematica dal punto vista familiare, come in tante altre situazioni, la famiglia si rivela un luogo dove possono coesistere interessi “emotivi” diversi, di cui i vari membri sono portatori. È quindi importante che il sostegno e l’accompagnamento alla transizione sia concepito in chiave di aiuto familiare ed è altrettanto importante che i professionisti che si accostano alle famiglie si attengano ad un principio di neutralità, accogliendo e rispettando le sensibilità e il punto di vista di ciascuno. 

Si rende necessario indagare le ragioni profonde che hanno indotto la persona ad un così radicale cambiamento di sé esplorando come si è costruita nel tempo quest’impellenza.

La disforia come sofferenza 

La disforia non è un fenomeno “out of the blue”; non emerge all’improvviso ma, dall’osservazione clinica, risulta l’esito di un empasse evolutivo, spesso indicazione di sofferenze pregresse.

Non ci soffermiamo qui sui criteri diagnostici che definiscono la disforia di genere ormai noti (vedi DSM V), ma su quanto sia importante nella presa in carico esplorare la storia familiare della persona che giunge con sintomi ascrivibili ad incongruenza di genere, soffermandosi su quelle vicende dolorose dirette e indirette, che hanno inciso sul suo percorso evolutivo.

In molti casi dall’esperienza clinica si evidenziano aree disfunzionali nelle relazioni familiari. A titolo esemplificativo: conflittualità nella coppia genitoriale, condizioni croniche di stress, depressioni post-partum, lutti e perdite non elaborate, eventi traumatici, segreti familiari possono provocare grave sofferenza nonché un arresto nei compiti evolutivi. I giovani che si identificano come persone trans sembrano aver patito, come e forse più di altri, l’impatto delle esperienze sopra descritte. Si può affermare che tali esperienze possono avere inciso sulla persona a volte portando a franche patologie, altre volte in termini di insoddisfazione esistenziale, costituendo in ogni caso un substrato di vulnerabilità.

Si rende quindi necessaria una accurata ricostruzione della storia personale e familiare per comprendere il fenomeno, contestualizzarlo e non colludere con aspettative irrealistiche.

Inoltre, l’osservazione clinica evidenzia come una certa parte dei ragazzi che si presentano con incongruenza di genere, siano stati nell’infanzia, per un certo periodo di tempo, dei “bravi bambini”, competenti, docili, compiacenti, in grado di corrispondere alle aspettative provenienti dai loro caregiver.

Tali comportamenti adattivi inducono spesso nel genitore un errore di percezione: il bambino vuol far credere di essere come il genitore lo rappresenta e il genitore può davvero equivocare, rispecchiando una parte del Sé del figlio non autentica. Se il falso Sé dà luogo a comportamenti acquiescenti e compiacenti, il bambino può essere visto come un bambino ben adattato, non sofferente di alcun disagio psicologico. Tuttavia spesso nel percorso di crescita i bambini convivono con la sensazione che una parte di sé sia inaccettabile, sperimentando un senso di vuoto e di incompletezza che può anche essere sentita come un senso di incompletezza corporea. I nodi vengono al pettine in adolescenza: è realistico che le pregresse difficoltà, connesse alla situazione vissuta descritta in precedenza, esplodano in modo particolarmente dirompente; se il figlio ha sviluppato quella parte del Sé collegata alle aspettative genitoriali è possibile che ora si invertano i ruoli e tutto ciò che è collegato alla originaria identità venga rifiutato in toto. Questo porta ad affermare una nuova identità “scelta” in antitesi a quella precedente, in opposizione a ciò che si è stati finora. 

Una ragazza dice: “non andiamo d’accordo, ho cercato da sempre di essere il meglio per mia madre…..se quando ero piccola avessi detto come mi sentivo, chi ero veramente, sarebbe stato meglio; ma non ci sono riuscito”

Un’altra aggiunge: “Tanto sono una delusione per loro, una più una meno”

Colpisce tuttavia che per molti ragazzi rimane fondamentale la ricerca di supporto, riconoscimento e approvazione da parte dei genitori che acuisce e rende logorante un forte conflitto interno. 

La disforia come perdita

La transizione espone i diversi membri della famiglia all’esperienza della perdita.

Cosa perdono i figli?

Alla luce di quanto descritto, la decisione di intraprendere un percorso di transizione viene vissuta da un figlio/da una figlia come l’unica via di uscita da una condizione esistenziale e sociale di grave sofferenza psichica in cui l’identità esistente deve soccombere per lasciare spazio ad una nuova identità. Contestualmente la persona mette in discussione tutto ciò che attiene all’identità che rifiuta: ricordi, esperienze, abitudini legate all’identità precedente vengono definiti come un patimento e devono essere recisi. In famiglia tutto può diventare terreno di un acuto conflitto. Demolire la propria fedeltà alla famiglia, in qualche modo “tradirla” per creare un senso di appartenenza al di fuori di essa (all’interno del gruppo dei pari, di una comunità di persone che condividono la propria ideologia) è necessario per potersi riconoscere e identificare in un’altra veste. Questa operazione sul piano psichico tuttavia non è priva di conseguenze: espone i figli alla perdita.

La perdita per i ragazzi trans ha molteplici valenze; essi, se arrivano in fondo al percorso, perdono una parte del proprio corpo, la capacità di procreare, il proprio nome. Ma l’aspetto più importante della perdita riguarda il disconoscimento una parte di sé che viene negata, dissociata.

Cosa perdono i genitori?

Come già detto, la transizione ormonale e sociale ha ricadute sull’identità di ciascun membro della famiglia. Quando il percorso di transizione prosegue, nei genitori emergono forti sentimenti di perdita assimilabili al lutto, poiché non è più possibile accostarsi al figlio conosciuto.

Un genitore dice: “rivoglio mio figlio”

I genitori perdono il loro status, si sentono delegittimati dal figlio, privati della loro esperienza di genitorialità, dei ricordi dell’infanzia del figlio e della rappresentazione del bambino che è stato.

La perdita, per genitori e figli, risulta inizialmente molto difficile da elaborare e si traduce spesso, per entrambe le parti, in un senso di mancanza e stigmatizzazione; in questa fase, la relazione tra i genitori e i figli appare estremamente labile, possono verificarsi rotture relazionali molto dolorose per tutti, seppur temporanee. L’impossibilità di confrontarsi su un piano emotivo più profondo porta spesso a non condividere ed elaborare il dolore.

La famiglia al centro dell’intervento terapeutico

I protocolli sanitari prevedono la presa in carico psicologica/psicoterapica dei ragazzi che vogliono intraprendere un percorso di transizione; questa indicazione è fondamentale. Tuttavia, la logica conseguenza dell’impostazione proposta, come ribadito più volte, rende necessario che l’intera famiglia sia coinvolta e si metta in discussione relativamente alle posizioni dicotomiche; spetta ai genitori fare quei passi necessari per evolvere da sterili contrapposizioni, promuovendo modalità relazionali più sane. Durante il percorso di psicoterapia familiare, sia che venga portata a compimento la transizione, sia che si interrompa, ad un certo punto è necessario un sostegno alla riorganizzazione delle relazioni familiari che consenta il superamento dei conflitti e delle dinamiche familiari disfunzionali. Pare sempre più evidente, come le dinamiche familiari siano centrali nel buon esito del processo di auto affermazione del giovane e pertanto meritano un’adeguata e profonda esplorazione.

È necessario ricostruire il percorso di sviluppo al fine di rendere comprensibili le origini del processo in atto, che rimangono misteriose fintanto che non si approfondisce la storia personale e familiare. 

Soprattutto quando la conflittualità appare elevata è necessario garantire uno spazio terapeutico sia per il figlio/a che per i genitori; si tratta di favorire un reciproco riconoscimento che consenta di elaborare i vissuti di perdita. La terapia deve quindi favorire una comunicazione più autentica tra genitori e figlio, al fine di promuovere processi di mentalizzazione.

Ma l’obiettivo più importante, come in tutte le terapie è quello di favorire l’integrazione delle diverse parti del Sé. Il figlio/la figlia deve essere sostenuto/a nel non rifiutare il bambino o la bambina che è stato/a, integrando l’identità passata con quella presente e futura. 

A loro volta, i genitori devono essere sostenuti nel rappresentarsi il figlio in tutte le sue parti, quelle dissociate – e in questo non hanno difficoltà -, ma anche nella nuova identità che faticosamente cerca di assumere. È questo processo virtuoso che può sostenere l’integrazione del Sé.


Bowlby  J., Attaccamento e Perdita Vol. 1, L’ attaccamento alla madre. Bollati Boringhieri, 1999

Bowlby  J., Attaccamento e Perdita Vol. 2, La separazione dalla madre. Bollati Boringhieri, 1999

Le Breton D., Cambiare pelle. Adolescenti e condotte a rischio, EDB, 2016

Prata, Boscolo, Cecchin, Selvini Palazzoli, 2012, Ipotizzazione, Circolarità, neutralità: tre direttive per la conduzione della seduta, Terapia familliare, issue 100  p. 211 – 225

Van der KolK B., Il corpo accusa il colpo. Raffaello Cortina Editore, 2015

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