Perché non mi hanno fermata?

Nostra traduzione della testimonianza di Di Ellie Chalkman pubblicata su Genspect il 25 gennaio 2024 dal titolo “What was I made for?”


Se ci ripenso ora, è evidente quanto fossi fuori strada. Quello non comprendo è come mai gli adulti responsabili non abbiano fatto di più per fermarmi.

Sono stata un maschiaccio per tutta l’infanzia e l’adolescenza. Prima della scuola media, non mi poteva importare meno del mio aspetto. A volte ho tentato di giustificare la scelta di transizione spiegando che “in ogni caso non ero mai stata in sintonia con la mia femminilità”, ma non era vero. Semplicemente non mi importava.

Come molte mie coetanee, passavo le giornate su Tumblr. Non avevo molti amici, ma molte cose da dire, quindi quando trovai una comunità online dove venivano trattati proprio i miei interessi mi sembrò un buon posto dove passare il tempo. Lì fui introdotta velocemente alla comunità LGBTQ+. In quel periodo ero ancora un vero maschiaccio, nonostante mettessi l’eyeliner, vestiti più femminili e cercassi di integrarmi con il resto delle ragazze della mia classe. A casa mi dedicavo agli hobby tipicamente riservati ai maschi. Sorprendentemente, nonostante l’idea che “i maschi che indossano il rosa sono gay” fosse ormai (giustamente) superata, in Internet stava emergendo una nuova prospettiva diffusa da Internet: “Ti piacciono le cose maschili/femminili? Allora nel tuo profondo sei dell’altro sesso!”. Oppure, come ti dicono, ora sei “un uovo” che sta per rompersi, per mostrare i tuoi “veri colori”, con i quali si intende l’altro genere. Utilizzai questa nuova angolazione per riunire uno ad uno i pezzi del puzzle che era la mia vita, associando la mia fase da maschiaccio con la volontà di cambiare genere.

Transizione

Ho fatto coming out poco dopo il mio quindicesimo compleanno. Iniziai a cercare un terapeuta tramite la mia assicurazione sanitaria e i siti web LGBTQ che mi indicarono medici vicino a me. Trovare un terapeuta richiese molto tempo: quando ebbi il mio primo appuntamento avevo quasi 16 anni. A quel punto avevo avuto diverso tempo da dedicare ai social media e rafforzare la mia posizione sul genere. La terapia fu ben poco terapeutica, fu più che altro un one-man show. Io parlavo e lei ascoltava. Le raccontai la mia fase da maschiaccio ed emersero i miei problemi mentali. Lei annuiva, li annotava e io continuavo a parlare. Dopo quel primo appuntamento, che incluse anche qualche domanda da parte sua, i colloqui mensili avevano la durata di 10-15 minuti. Durante la seduta mi limitavo a raccontare come stavo affrontando il mio nuovo ruolo di “maschio” e qualche volta anche come mi sentivo a livello mentale, ovvero non benissimo.

Dopo un anno di questi incontri a intermittenza, mi consegnò una lettera con scritto che avevo completato il mio anno obbligatorio di “terapia”. Il passo seguente fu andare da un ginecologo e mostrargli la lettera, il che significava che ero sulla buona strada per prendere gli ormoni. Feci le analisi del sangue e subito dopo fissai un appuntamento per la mia prima iniezione. Avvenne in prossimità del mio 18esimo compleanno.

In seguito presentai una richiesta di intervento chirurgico alla mia assicurazione, che mi inviò due periti indipendenti (psicologi) che dovevano redigere due relazioni distinte che dimostrassero all’assicurazione che ero trans. Ancora una volta si trattò di un one-man show, in quanto si limitarono a trascrivere la mia storia, facendo giusto un paio di domande su come si erano svolti i fatti.

C’è stata una sola occasione nella quale ho avuto la sensazione che qualcuno mettesse in dubbio la mia decisione; fu quando una dei periti, che era anche una ginecologa, mi disse che molte ragazze si erano rivolte a lei per lo stesso motivo. Ma la maggior parte di loro rinunciava alla transizione non appena si rendeva conto di non essere affatto trans o non binaria; i problemi che le avevano portate da lei erano altri, e loro avevano sbagliato a interpretarli. Mi sentii minacciata dalle sue domande, volevo farle capire che io non ero come quelle ragazze. Io lo ero veramente.

Qualche mese dopo l’invio delle valutazioni all’assicurazione il mio intervento fu approvato. Dovetti aspettare altri sei mesi per l’appuntamento. Purtroppo ebbi grossi coaguli di sangue e dopo un paio di giorni in ospedale dovettero rioperarmi. Alla fine rimasi con una mezza coppa A macellata, ammaccata e sfregiata.

A 19-20 anni mi sottoposi a un intervento di revisione, ci era voluto quasi un anno per guarire abbastanza da essere considerata di nuovo operabile. L’intervento di revisione mi conferì un torace piatto, ma adesso ho di nuovo un piccolo seno, con cicatrici e piccole ammaccature e non è un bello spettacolo quando mi chino. Ma per mia fortuna in questo caso, a quanto pare nemmeno con tre operazioni sono riusciti a rimuovere tutto il tessuto. Gli estrogeni hanno salvato parte del tessuto del mio seno (evviva direi!).

All’epoca mi sembrava ci volesse un’eternità per ottenere qualsiasi cosa, soprattutto perché dove vivo io possono volerci mesi o anni per fissare gli appuntamenti per le visite mediche e, nel mio caso, non venne fatto molto per aiutarmi in qualunque modo. È un pensiero angosciante ora, che se le liste d’attesa non fossero state così lunghe, tutti questi passi avrebbero potuto essere compiuti in meno di due anni, a malapena il tempo per adattarsi al cambiamento di scenario che il corpo e la mente attraversano.

Infine ho cambiato il mio nome, cosa che in sé ha richiesto quasi due anni.

Ma ho fatto tanta strada, ho pensato. Non posso tornare indietro ora.

Meno di sei mesi dopo l’operazione, sono arrivata a sentirmi a disagio nel mio corpo, ancora più di quanto lo fossi prima. Questa sensazione è cresciuta dentro di me fin quando ho realizzato che si trattava di rimorso per ciò che avevo fatto.

Me lo ricordo benissimo: ero a casa di un amico e ci eravamo vestiti con stupidi costumi e parrucche. Mi ha scattato una foto con una lunga parrucca castana che somigliava ai miei capelli prima che li tagliassi. All’improvviso, mi sentivo più in sintonia con me stessa di quanto non lo fossi stata per anni. Quando andai in bagno e mi guardai allo specchio, mi resi conto che non riconoscevo la persona che vedevo. Era uno sconosciuto che mi guardava. Non ero io e non ero felice. Niente di tutto questo mi rendeva felice.

Ma ho fatto tanta strada, pensai. Non posso tornare indietro ora. Così non dissi nulla. Per sei mesi rimasi in silenzio mentre faticavo a capire cosa ci fosse di sbagliato in me. L’unico contesto in cui esprimevo le mie preoccupazioni era la comunità LGBTQ+ su Twitter e Instagram, ma tutti liquidavano le mie sofferenze come una se fossero normali, e non certo come un segnale del fatto che forse avevo commesso un errore!

Poi un giorno l’ho detto al mio ragazzo e sono crollata. Gli ho confessato che pensavo di aver commesso un errore, lui mi ha lasciata piangere rassicurandomi che mi avrebbe sostenuta in ogni caso.

Trovare soluzioni per la detransizione era praticamente impossibile. Solo quando ho cercato “posttrans” su Instagram ho finalmente trovato la definizione di ciò che stavo passando.

A posteriori, posso dire che la maggior parte dei professionisti coinvolti nella mia transizione non mi ha mai veramente fatto domande. L’ho sentito dire anche da molti altri. Tutti quanti si limitavano a concordare con qualsiasi cosa dicessimo, indipendentemente dalla nostra età, da quanto tempo stavamo mettendo in discussione il nostro genere o dalla quanti vissuti complessi avessimo alle spalle. Lo vuoi, lo ottieni.

È stato assurdo perché, ben prima della transizione, lottavo con un disturbo alimentare, con l’autolesionismo, con la depressione e altre malattie mentali non diagnosticate. La mia immagine di me stessa è sempre stata una macchia di odio e disagio.

Una volta, quando ero in piena transizione, tentai di uccidermi perché la transizione non aveva risolto nessuna delle mie altre patologie. Ricordo che, dopo quel tentativo, in ospedale mi perquisirono per bene alla ricerca di qualsiasi oggetto con il quale avrei potuto farmi del male perché “non ero nella condizione di prendere decisioni che salvaguardassero la mia sicurezza”. Poco dopo mi informarono che c’erano delle persone con le quali avrei potuto discutere la possibilità di una mastectomia.

Non mi era permesso di farmi del male da sola, però potevo consentire che fossero gli altri a farlo al posto mio. Perfetto.

Oltre la transizione

Ho da poco concluso di nuovo la pratica di cambio del nome. Ho smesso di prendere il testosterone senza dirlo al mio ginecologo, mi vergognavo troppo. Quando volevo fare la transizione, ero dovuta passare da ben due psicologi che confermassero la diagnosi. Smettere di prendere il testosterone e smentire la loro diagnosi mi faceva sentire in imbarazzo, come se la colpa di tutto fosse solo mia.

In fondo, tutti gli esperti con cui sono entrata in contatto conoscevano il mio trascorso alle prese con un’immagine di me stessa e uno mentale offuscati, e nonostante questo hanno valutato che, ancora minorenne, fossi pronta per una simile scelta.

È un’altra delle cose che continuo a sentire: che è colpa nostra, che avremmo dovuto sapere a cosa andavamo incontro, che eravamo impostori.

Eppure non permettiamo ai ragazzi di votare o di comprare sigarette e alcolici. Se tua figlia di 14 anni ti supplicasse di aumentare il seno le diresti di no. Se è così, perché mai le lasceresti tagliarselo via? Basta che pronunci le parole magiche?

Non c’è nessuno da incolpare; il dito puntato rimbalza da una persona all’altra. A 15 anni ero abbastanza grande per sapere cosa stavo facendo, vero? Oppure no, dal momento che molti diciottenni su Internet vengono ancora chiamati ragazzini e non vengono ritenuti responsabili dei loro problemi?

Quando ho trovato una comunità di altre persone pentite della transizione, mi sono resa conto che, ogni volta che mi veniva detto “Sei un’eccezione”, non lo ero affatto. Ogni giorno nuove persone si uniscono alle chat e chiedono aiuto. A volte si sente dire che le persone interrompono la transizione perché vengono costrette, eppure in tutte le chat di gruppo e nei forum non mi è mai capitato di incontrare una sola persona che l’abbia fatto per questo motivo.

Pensavo davvero di essere trans. Ci credevo veramente.

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