Avevamo solo bisogno di tempo
Sono la madre di una ragazza di 23 anni che durante l’infanzia non ha mai manifestato problemi di identità di genere.
L’adolescenza passa senza troppi problemi, è una ragazza normale con tanti amici, le piace uscire, pensare a come vestirsi e truccarsi.
Nel 2020 arriva il COVID, e con esso il lock-down. Nostra figlia ha 18 anni e la sua vita, come quella di tutti, viene messa in stallo per mesi… Purtroppo, però, a 18 anni si perdono tappe importantissime che rischiano di non essere più recuperate. Sono almeno sollevata dal fatto che esista internet, mi dico che può comunque rimanere connessa al resto del mondo pur rimanendo confinata nella sua stanza, ma internet è un mondo oscuro, e io non ho nessun controllo sui siti che visita.
La vedo isolarsi sempre di più sui social, e in quel periodo sviluppa una vera e propria dipendenza che non è ancora passata: anche adesso fa fatica a stare più di cinque minuti senza telefono.
Il 2020 è anche l’anno della sua maturità scolastica, e da lì in poi perde ogni progettualità: si iscrive all’università, ma la lascia dopo appena un mese e va a lavorare nel primo posto che trova solamente per avere uno stipendio. Mi rendo conto che è insoddisfatta e senza obiettivi, la vedo triste e incupita; purtroppo non parla molto, da sempre ha un carattere molto chiuso.
Quando mi comunica che sta vedendo una psicologa online mi sento sollevata, perché penso che le serva per affrontare quella che temo sia una forma di depressione.
Purtroppo però, una notte di inizio gennaio 2024, mi lascia un biglietto dove dice che già da un po’, o da molto (la frase non è chiara), vive nella sua testa una vita diversa. La sua psicoterapeuta, specializzata in tematiche LGBTQ+ – come scrive sul suo sito internet – dopo pochi mesi di sedute discontinue via Skype (solo successivamente ho scoperto che sono state quattro in tutto) sta per confermare quello che mia figlia si è già autodiagnosticata: la disforia di genere.
Da li partirà tutto il percorso dall’endocrinologo per proseguire con le operazioni chirurgiche: mastectomia, isterectomia, oviariectomia.
Mia figlia dice che è attratta dai ragazzi, quindi si immagina in futuro come maschio trans gay, e questo per me è ancora più difficile da capire.
Dà già tutto per scontato, senza possibilità di dubbio, perché “sa che è così”.
Quando, in preda alla disperazione, cerco su internet testimonianze sulla disforia capisco che dappertutto la strada è già tracciata: noi genitori dobbiamo solo accettare, accogliere e accompagnare nostra figlia nel percorso di transizione. I genitori che si oppongono vengono tacciati di essere omofobi e transfobici, e non è possibile avere dubbi al riguardo.
Quando le chiedo come mai si sia rivolta proprio a quella terapeuta, mi risponde che gliel’hanno consigliata su internet perché in poche sedute arriva “dritta al punto”, mentre altri psicologi conducono delle terapie che durano mesi, se non addirittura anni. Io sono sempre più allibita da tutta questa fretta, tutta questa affermazione; sto scoprendo un mondo che non conoscevo e che mai avrei creduto potesse esistere.
Per fortuna una notte, come una luce nel buio, trovo il sito di GenerAzioneD, riesco a contattare una coordinatrice e tiro un sospiro di sollievo perché incontro persone che la pensano come me, che si pongono le stesse domande:
davvero una problematica di tale gravità può essere affrontata in maniera così frettolosa e superficiale, senza indagare su nessun altro aspetto della psicologia di mia figlia?
Davvero una ragazza con pochi test su internet può autodiagnosticarsi una condizione di tale portata e venire da subito assecondata, affermata ed esortata a cominciare il percorso per “diventare” un maschio?
Una sera accetto di partecipare ad una seduta online con la sua psicologa affermativa durante la quale ho l’impressione di essere passata sotto uno schiacciasassi: ovviamente la chiama sempre al maschile -ripetendo spessissimo il nome che ha scelto, come per affermarla continuamente -, la esorta a fare la transizione sociale al più presto in famiglia e sul luogo di lavoro (cosa che per fortuna mia figlia non ha ancora fatto), parla della terapia ormonale come fosse una passeggiata di salute, priva di effetti collaterali e con la possibilità in qualsiasi momento di poter tornare indietro, e mi propone di darmi i contatti di gruppi di genitori di figli trans che possono essermi d’aiuto.
Forte degli articoli che ho letto e riletto sul sito, riesco a ribattere e a non sottostare alle minacce psicologiche che chi è nella nostra situazione conosce bene, come un copione già scritto: “meglio un figlio vivo che una figlia morta”, e via dicendo. Concludo la seduta affermando che tutti e tre, noi genitori e la ragazza, abbiamo bisogno di tempo per affrontare questa situazione e che vogliamo sentire un altro parere. Ribatte che i terapeuti del settore li ha formati lei, quindi la diagnosi sarà sempre la stessa.
Grazie all’associazione riusciamo ad avere un contatto di una terapeuta per noi genitori dalla quale cominciamo ad andare regolarmente ogni due settimane. Nonostante io e il padre di mia figlia siamo divorziati da molti anni, in questo dramma che ci è capitato ci troviamo compatti, concordi, pronti a sostenerci a vicenda e a sostenere nostra figlia, e questo credo che sia molto importante anche per lei, che nella sua vita non ci ha mai praticamente visto insieme.
Dalla nostra terapeuta impariamo a mettere da parte il nostro dolore per vedere il dolore di questa ragazza, che di sicuro sta sperimentando una sofferenza enorme di cui non ci siamo accorti. Passo le notti a cercare di capire quale traumi possa avere subito, se sia stata bullizzata per il suo fisico un po’ in sovrappeso… Parlare con lei non porta a niente: si chiude a riccio e dice di essere sempre stata così, ma ora ha trovato delle persone (online) che l’hanno aiutata a capire che si tratta di disforia di genere.
Dopo qualche settimana la nostra terapeuta riesce a trovare nella nostra zona una terapeuta esplorativa per nostra figlia; anche se un po’ controvoglia, accetta di iniziare la terapia – questa volta in presenza – con una seduta a settimana.
La nuova terapeuta ci dice chiaramente che non è né a favore né contro la transizione di genere, ma che bisogna valutare molto bene la persona nella sua interezza, e non focalizzarsi solo sull’aspetto della disforia.
Dal momento che la ragazza è maggiorenne, non possiamo avere rapporti diretti con la terapeuta e non sappiamo come sta andando. Nostra figlia non racconta delle sedute, ma dai pochi accenni capisco che stanno portando avanti una terapia esplorativa a 360 gradi. Continua ad andare tutte le settimane: brontola un po’, ma non salta un appuntamento. Ogni tanto fa una seduta online con la psicologa affermativa. In autunno confessa a questa psicoterapeuta di essere confusa: non è più sicura di quello che vuole e che le certezze che aveva non sono più le stesse. Da quel momento interrompe la terapia affermativa.
Da allora sono passati altri mesi, nostra figlia prosegue con la terapeuta esplorativa e non si lamenta più del suo appuntamento settimanale. La vediamo più serena, si è fatta allungare i capelli, ha ricominciato a curarsi e a depilarsi, in poche parole ha ricominciato ad accettarsi e a volersi bene. Io e lei continuiamo a fare mille cose insieme, concerti, viaggi all’estero, cerchiamo di fare tutte le cose che le piacciono.
Non posso mettere ancora la parola fine a questo incubo che abbiamo vissuto, ma non passa giorno in cui non mi chieda dove saremmo a quest’ora se avesse proseguito con la terapia affermativa.
La sofferenza di ragazzi fragili e confusi come nostra figlia è enorme, ma viene incanalata in una direzione unica da medici che portano avanti una ideologia senza considerare minimamente il benessere dei loro pazienti.
Noi genitori invece siamo accusati di non capire, di essere transfobici, di non volerli accompagnare… proprio noi, che li amiamo più di ogni altra cosa al mondo.