Mancano i dati italiani sulla disforia di genere, ma la promozione dell’approccio affermativo non si ferma
Sono sempre più frequenti in Italia convegni e congressi nei quali viene trattato il tema della disforia e dell’incongruenza di genere, con la partecipazione di professionisti sanitari che raccomandano il cosiddetto “’approccio affermativo” per i minori e i giovani adulti che, in misura sempre più crescente, si auto-dichiarano transgender.
In nessuno di tali consessi, vengono mai menzionati i dati che caratterizzano il fenomeno italiano e che dovrebbero guidare qualsiasi serio percorso di assistenza sanitaria.
Per inquadrare correttamente la condizione definita come incongruenza di genere o disforia di genere (la sofferenza legata alla percepita incongruenza), occorre sottolineare che per l’accertamento di tale condizione non esistono idonei accertamenti diagnostici di laboratorio o di tipo strumentale, per cui la diagnosi si basa principalmente, se non esclusivamente, sul racconto del soggetto, sia esso un bambino piuttosto che un adulto. Tale situazione non desterebbe scalpore, se non fosse che l’attuale approccio affermativo, che prevede l’immediata convalida della percezione del minore e del giovane adulto (spesso a prescindere da altre eventuali comorbilità o esperienze traumatiche) e che viene acclamato da molti come una giusta affermazione del principio di autodeterminazione, prevede la medicalizzazione a vita di questi bambini e giovani, dapprima tramite la somministrazione degli ormoni bloccanti della pubertà e successivamente tramite quella degli ormoni cross-sex o tramite la sottoposizione a interventi chirurgici dai chiari effetti irreversibili.
I fautori dell’approccio affermativo perseguono le linee guida emanate dall’associazione privata WPATH, che prevedono, tra le altre cose, l’abbassamento delle età minime per una serie di trattamenti farmacologici, come gli ormoni cross-sex, consigliati già a partire dai 14 anni, nonché per gli interventi chirurgici irreversibili delle caratteristiche anatomiche sessuali, come le doppie mastectomie – consigliate per le ragazze già a partire dai 15 anni-, le protesi mammarie e la chirurgia del viso dai 16 anni, la vaginoplastica e l’orchiectomia dai 17 anni per i ragazzi. Il tutto per una condizione che viene qualificata come non-patologica e probabilmente transitoria.
Sempre più spesso in occasione di questi incontri organizzati sul tema, fior di professionisti sanitari sollecitano con inspiegabile entusiasmo l’applicazione generalizzata di tali raccomandazioni, in virtù di una libertà di autodeterminazione del bambino e del minore che non solo non tiene in minimo conto l’importanza del principio di precauzione riguardo alla salute psicofisica del minore, ma compromette ab origine anche qualsiasi possibilità di errata interpretazione o di ripensamento da parte del giovane nella sua fase di sviluppo e sperimentazione interiore. Il diritto di ripensamento, che il crescente numero di desisters e detransitioners qualifica come eventualità concreta, non viene nemmeno considerato per tale condizione, nonostante la gravità dei trattamenti medici proposti ne imporrebbe un’attenta valutazione.
In tale narrazione affermativa spinta, il contesto italiano si caratterizza per l’assoluta mancanza di numeri, certificando una pericolosa aggravante per la comunità scientifica che sostiene tale azzardo terapeutico.
Vengono citati a piene mani, e molto spesso in modo errato e strumentale, i numeri dei casi esteri, ma quanto al territorio italiano nulla è mai stato pubblicato. Non è noto, quindi, quanti siano i bambini e i ragazzi che abbiano avuto accesso ai centri per il trattamento della disforia di genere in Italia, a quali trattamenti siano stati sottoposti, a che età e per quanto tempo siano stati medicalizzati, quali siano state le alternative terapeutiche proposte e quali siano gli esiti di questa “sperimentazione selvaggia” al buio finora posta in essere.
La mancanza assoluta di dati aggiornati sulla situazione dei bambini e degli adolescenti con disforia di genere in Italia è una grave carenza che dovrebbe suggerire estrema cautela nel proporre un trattamento, come quello affermativo, che viene progressivamente disatteso nei paesi che per primi lo hanno adottato.
Questa assenza di dati concreti, quindi, rappresenta un vero e proprio vuoto che perpetua l’isolamento, l’incomprensione, la discriminazione e l’adozione di politiche sanitarie potenzialmente inadeguate, eccessive e dannose.
Attualmente, in Italia, ci troviamo di fronte alla pericolosa tendenza a promuovere la transizione fisica, inclusi trattamenti ormonali e chirurgici su bambini e adolescenti, senza una base di ricerca solida che possa garantire che tali trattamenti non causino danni irreversibili.
La pressione sociale e culturale che spinge verso la normalizzazione di questi interventi, senza un’adeguata riflessione scientifica e etica, rende più difficile individuare e intervenire tempestivamente su quei segnali di sofferenza che, se ignorati o non adeguatamente diagnosticati, possono esporre a gravi conseguenze fisiche e psicologiche i minori, i quali sovente non hanno nemmeno la maturità psicologica e cognitiva per comprendere appieno le implicazioni di queste scelte così invasive.
Sulla questione della mancanza di dati certi, anche il Comitato Nazionale di Bioetica ha richiesto l’adozione di standard clinici basati su evidenze scientifiche, l’avvio di ricerche rigorose in tale ambito sotto l’egida ministeriale e il ricorso a trattamenti medici solo all’interno della sperimentazione, dopo una valutazione approfondita e multidisciplinare dei rischi e dei benefici.
Fino a che questo nuovo percorso non sarà normato e finché non saranno pubblicati dati affidabili in merito alle sperimentazioni attuate, i professionisti sanitari seri dovrebbero dimostrare estrema prudenza nel proporre come unica soluzione terapeutica quell’insieme di trattamenti farmacologici e chirurgici, il cui rapporto fra rischi e benefici risulta essere quanto di più incerto e aleatorio sia presente nel contesto clinico mondiale.
Il diritto alla salute, espressamente salvaguardato dalla nostra Costituzione, soprattutto quando si tratta di bambini e giovani vulnerabili, merita di essere tutelato in modo adeguato dall’ordinamento e non può essere posto in subalternità rispetto a logiche identitarie, spesso caratterizzate da percezioni transitorie e condizionamenti esterni.